nuriye

Giudici che odiano le donne?

Stiamo seguendo da tempo le vicende di Nuriye e Semih, i due insegnanti turchi incarcerati con l’accusa di tramare contro il regime di Erdogan.

Oggi, 27 novembre, si è svolto nel carcere di Sincan (Ankara) un altro capitolo di quella che possiamo definire una vera persecuzione giudiziaria nei confronti di Nuriye Gulmen.

Una vicenda dai contorni ormai kafkiani, se non oltre.

In aperto contrasto perfino con quanto richiedeva la pubblica accusa (non è un lapsus: è scritto proprio “accusa”) il giudice ha nuovamente impedito la scarcerazione (in libertà provvisoria, controllata) di Nuriye.

Tale comportamento lascia intravedere una mentalità aprioristicamente inquisitoria e punitiva nei confronti di questa donna coraggiosa che ha osato ribellarsi al volere del sultano.

A ben guardare, in linea con l’attuale “politica delle donne” operata dal governo turco.

Recenti studi e inchieste hanno confermato quanto la cronaca aveva già reso palese.

Negli ultimi anni in Turchia le violenze contro le donne sono aumentate  in maniera esponenziale e nel 70% dei casi vengono compiute da familiari e conoscenti. E’ assodato che la famiglia in Turchia è generalmente dominata dall’uomo. E in questo è perfettamente in sintonia con l’attuale politica del governo Akp. Governo che viene rafforzato, stabilizzato  da questa diffusa mentalità, patriarcale e sessista, di egemonia maschile. Del resto, forse suggestionato da qualche esternazione di Trump, Erdogan non ha esitato nel dichiarare pubblicamente che in fondo  «l’uguaglianza tra uomo e donna è innaturale».

Dalla lettura di un recente documento prodotto dalle donne curde si comprende come «questa cultura della violenza sulle donne e dello stupro sostenuto dal governo è un elemento decisivo nella ripresa e ascesa del fascismo(…). Le donne sono costrette a sposare i loro stupratori. Mentre dispongono di diritti già piuttosto limitati, sono private anche di questi loro diritti».

Ma se per le donne curde diventa prioritario «considerare la libertà femminile come questione primaria e non secondaria», è probabile che per un giudice, funzionario  del regime, le cose stiano altrimenti.

Rifiutando di accettare la morte civile che le veniva imposta, Nuriye non si è solo ribellata al regime di Erdogan. Ha anche mostrato di non volersi rassegnare a una condizione di subalternità, di  sottomissione. Quella condizione su cui la mentalità patriarcale la vorrebbe comunque, in quanto donna, inchiodata.

E’ solo un’ipotesi, naturalmente. Non mi è dato di conoscere quali pensieri germogliano nel cranio di un giudice,. Ma è probabile che nei confronti di Nuriye sia stata applicata la vecchia regola del «sorvegliare e punire». Soprattutto punire.

Torniamo a Sincan. Come ha commentato qualcuno dei presenti la quinta udienza del processo a Nuriye e Semih «si apre col botto».

Quasi incredibile. Fermi restando i capi d’accusa, la richiesta di liberazione per Nuriye Gulmen viene dalla stessa pubblica accusa.

Ma comunque la decisione finale spetterà al giudice.

Nel corso dell’udienza, la difesa dei due imputati in sciopero della fame riesce a demolire quanto viene affermato dai testimoni dell’accusa (Berk Ercan e fatih Solah) chiedendo di conseguenza la caduta di tutti i capi d’accusa.

Il primo dei cinque testimoni presentati dalla difesa è un deputato del Chp (Cumhuriyet Halk Partisi). Ali Haydar Haverdi ha spiegato quale sia stato il sostegno dato dal  suo partito ai due insegnanti e parla dell’incontro avuto da Nuriye con la commissione del Chp. Scopo dell’incontro, la denuncia delle purghe operate dal governo con la scusa del “golpe” e la definizione di iniziative per ottenere il reintegro dei lavoratori licenziati arbitrariamente.

Dopo di lui, alcuni rappresentanti della società civile hanno chiarito come la scelta dello sciopero della fame in quanto forma di lotta derivasse dalle discussioni avute da Nuriye con quasi tutte le formazioni politiche e sindacali. Se poi alcune di queste non l’hanno seguita o adeguatamente supportata, ciò era dovuto alla paura, pura e semplice, di subire un ulteriore inasprimento dei colpi della repressione.

Quindi, la cosa importante «nessun ordine o direttiva da parte del DHKP-C»

(Devrimci Halk Kurtulus Partisi-Cephesi) e automaticamente viene a cadere ogni ipotesi di «connessione con organizzazione terrorista».

Non demorde Nuriye che ribadisce la sua richiesta di venir rimessa in libertà, come dovrebbe avvenire  «in base al Diritto».

Mentre i presenti cominciano a sperare, a illudersi di poterla riabbracciare, la corte si ritira. L’attesa si prolunga. «Troppo» si comincia a temere. E infatti al rientro del giudice la brutta sorpresa. Si è deciso di «mantenere Nuriye Gulmen in detenzione» con la scusa che «potrebbe fuggire».

Se non è infierire, questo!?

La seduta viene quindi aggiornata al primo dicembre, fra quattro giorni.

I numerosi amici e militanti solidali si accalcano all’esterno, per niente intenzionati a tornarsene a casa per smaltire in solitudine l’amarezza e la rabbia.

L’improvvisato sit-in di protesta viene violentemente disperso da una serie di cariche della polizia che si scatena picchiando e aspergendo di gas urticante chiunque venga intercettato. In Strada Yuksel intervengono duramente anche con i cannoni ad acqua.

Scene di ordinaria repressione, di qualche ora fa.

E tuttavia, come ha commentato uno che c’era: «Nuriye non molla, noi neppure».