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Mladić, l’ergastolo che chiude il cerchio

Mercoledì 22 novembre l’ex generale serbo Ratko Mladić è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, l’organo a cui le Nazioni Unite hanno affidato dal 1993 il mandato di indagare e perseguire i crimini commessi durante la guerra civile che negli anni Novanta ha seguito la disgregazione della Jugoslavia.

Mladić è stato giudicato colpevole per dieci degli undici capi d’accusa su cui era stato costruito il processo di primo grado: genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, in particolare per l’assedio di Sarajevo e per il genocidio di Srebrenica (su cui il dibattito è lontano dal chiudersi) sono le parole chiave di una sentenza che nei fatti chiude un capitolo di storia, anche giudiziaria. L’unico capo di imputazione da cui l’ex comandante delle forze serbo-bosniache è stato assolto riguarda le accuse di genocidio in sei municipalità della Bosnia orientale e settentrionale.

Secondo Alfredo Sasso, collaboratore di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e della rivista East Journal, questo processo «aveva un significato particolare, perché Ratko Mladić da generale dell’esercito serbo-bosniaco si è macchiato di alcuni dei crimini più gravi compiuti nelle guerre degli anni Novanta». Il Tribunale, infatti, ha riconosciuto un importante contributo del comandante Mladić nel massacro di Srebrenica del luglio del 1995, quando i soldati serbo-bosniaci occuparono la città di Srebrenica, nell’estremo est del Paese. Lì si era creata un’enclave bosniaca circondata da territori abitati da serbi di Bosnia, controllata dalla Forza di protezione delle Nazioni Unite a guida olandese.

Secondo quanto documentato anche da un’inchiesta di BBC e confermato anche dalla sentenza di ieri, fu proprio Mladić a ordinare il massacro di tutti i maschi adulti e degli adolescenti. Anche se un numero preciso è impossibile da determinare, ed è ancora oggi oggetto di controversie, si ritiene che almeno 8.000 persone vennero uccise. Inoltre, Mladić è stato condannato anche per aver coordinato sul campo l’assedio di Sarajevo, durato quasi quattro anni e durante il quale migliaia di persone morirono uccise dai cecchini e dalle bombe, mentre ancora di più vennero ridotte in stato di totale emergenza dovuta alla privazione di risorse.

Probabilmente, anche il fatto che il processo nei confronti di Mladić si sia chiuso dopo così tanto tempo dà ancora di più il senso della fine di un capitolo. «Mladić – prosegue Sasso – è stato uno degli ultimi a vedere iniziare il suo processo, perché è stato protagonista di una latitanza durata sedici anni. Questo aspetto ha ritardato gli effetti della giustizia internazionale e aveva creato un senso di incompiutezza della giustizia e anche di riparazione per le vittime che invece ieri si è completato. È una condanna di primo grado, ma è un ergastolo con dei capi d’imputazione abbastanza completi».

La condanna di Mladić, che oggi ha 74 anni e che anche ieri attraverso i suoi avvocati ha ribadito di avere problemi di salute, arriva 12 mesi dopo quella inflitta al suo diretto superiore, il capo politico dei serbo-bosniaci Radovan Karadžić, che nel 2016 è stato condannato a 40 anni di carcere per genocidio. «Questa sentenza è coerente con quella a Karadžić – spiega Alfredo Sasso – e anche con le sentenze ai danni di altri tre ufficiali dell’esercito serbo-bosniaco, che erano stati anche condannati all’ergastolo. Si è riportata una certa coerenza nella giurisprudenza perché ci sono stati dei momenti in passato dove l’operato del tribunale è stato anche legittimamente oggetto di critiche». Il riferimento è in particolare al caso delle sentenze su Ante Gotovina, il generato croato responsabile dell’operazione Tempesta ai danni della popolazione civile serba, così come ad altri ufficiali serbi che sono stati assolti. «C’è stata una fase, tra il 2012 e il 2013, in cui il tribunale ha adottato dei criteri particolarmente restrittivi per emettere condanne. Non è però il caso delle più recenti sentenze. Anzi, nel caso di Mladić abbiamo una condanna all’ergastolo rispetto a quella a 40 anni di Karadžić che aveva creato molti malumori a Sarajevo, soprattutto tra le associazioni di vittime e della società civile».

Se è possibile ritenere che a livello giudiziario si sia chiuso un capitolo, al netto del ricorso che verrà presentato dai legali di Mladić, quello delle responsabilità durante la guerra degli anni Novanta è un tema che non ha ancora smesso di dividere, tanto a livello di leadership quanto a livello di opinione pubblica. Secondo Sasso, «vedendo le reazioni delle istituzioni politiche, a cui corrispondono anche le politiche educative, come i libri di testo e i programmi universitari, le interpretazioni della guerra degli anni Novanta sono radicalmente distinte nella regione ex jugoslava e in Bosnia-Erzegovina e soprattutto nel caso di Mladić ci sono state delle reazioni di aperto negazionismo». Oggi la televisione privata serba Pink definiva “vergognosa” la sentenza, mentre il giorno prima del verdetto Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, una delle due principali entità che costituiscono la Bosnia ed Erzegovina, ha affermato che Mladić è una leggenda per il popolo serbo. «Non siamo – chiarisce Sasso – di fronte a una riabilitazione, ma proprio a una glorificazione dei vertici militari che si sono macchiati di crimini più o meno gravi. Questa è una costante, ma la reazione di Dodik è stata molto al di là di quelle degli ultimi anni». Da Belgrado invece, come riporta il quotidiano Danas, il presidente serbo Aleksandar Vučić ha parlato della necessità di rivolgersi al futuro. «Può essere anche un’attitudine comprensibile», spiega Alfredo Sasso, «ci sono sicuramente anche tanti bosniaci, soprattutto tra i giovani, che vogliono guardare al futuro, però serve un’empatia e un mutuo riconoscimento delle sofferenze altrui che da parte anche della leadership della Serbia non è arrivato ed è una condizione necessaria per il futuro».

In un contesto in cui il tema dell’appartenenza ha dettato gli schieramenti e i comportamenti per molti anni, colpisce il silenzio della chiesa ortodossa serba, accusata di aver protetto l’ex generale durante la sua lunga latitanza e di non aver mai condannato fino in fondo i suoi comportamenti. La scelta di rimanere ai margini della questione può essere letta in diversi modi, ma rischia di non consentire il necessario passo verso la fine, questa volta anche storica, del capitolo.

Immagine: di Martijn.Munneke, via Flickr

Mercoledì 22 novembre l’ex generale serbo Ratko Mladić è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, l’organo a cui le Nazioni Unite hanno affidato dal 1993 il mandato di indagare e perseguire i crimini commessi durante la guerra civile che negli anni Novanta ha seguito la disgregazione della Jugoslavia.

Mladić è stato giudicato colpevole per dieci degli undici capi d’accusa su cui era stato costruito il processo di primo grado: genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, in particolare per l’assedio di Sarajevo e per il genocidio di Srebrenica (su cui il dibattito è lontano dal chiudersi) sono le parole chiave di una sentenza che nei fatti chiude un capitolo di storia, anche giudiziaria. L’unico capo di imputazione da cui l’ex comandante delle forze serbo-bosniache è stato assolto riguarda le accuse di genocidio in sei municipalità della Bosnia orientale e settentrionale.

Secondo Alfredo Sasso, collaboratore di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e della rivista East Journal, questo processo «aveva un significato particolare, perché Ratko Mladić da generale dell’esercito serbo-bosniaco si è macchiato di alcuni dei crimini più gravi compiuti nelle guerre degli anni Novanta». Il Tribunale, infatti, ha riconosciuto un importante contributo del comandante Mladić nel massacro di Srebrenica del luglio del 1995, quando i soldati serbo-bosniaci occuparono la città di Srebrenica, nell’estremo est del Paese. Lì si era creata un’enclave bosniaca circondata da territori abitati da serbi di Bosnia, controllata dalla Forza di protezione delle Nazioni Unite a guida olandese.

Secondo quanto documentato anche da un’inchiesta di BBC e confermato anche dalla sentenza di ieri, fu proprio Mladić a ordinare il massacro di tutti i maschi adulti e degli adolescenti. Anche se un numero preciso è impossibile da determinare, ed è ancora oggi oggetto di controversie, si ritiene che almeno 8.000 persone vennero uccise. Inoltre, Mladić è stato condannato anche per aver coordinato sul campo l’assedio di Sarajevo, durato quasi quattro anni e durante il quale migliaia di persone morirono uccise dai cecchini e dalle bombe, mentre ancora di più vennero ridotte in stato di totale emergenza dovuta alla privazione di risorse.

Probabilmente, anche il fatto che il processo nei confronti di Mladić si sia chiuso dopo così tanto tempo dà ancora di più il senso della fine di un capitolo. «Mladić – prosegue Sasso – è stato uno degli ultimi a vedere iniziare il suo processo, perché è stato protagonista di una latitanza durata sedici anni. Questo aspetto ha ritardato gli effetti della giustizia internazionale e aveva creato un senso di incompiutezza della giustizia e anche di riparazione per le vittime che invece ieri si è completato. È una condanna di primo grado, ma è un ergastolo con dei capi d’imputazione abbastanza completi».

La condanna di Mladić, che oggi ha 74 anni e che anche ieri attraverso i suoi avvocati ha ribadito di avere problemi di salute, arriva 12 mesi dopo quella inflitta al suo diretto superiore, il capo politico dei serbo-bosniaci Radovan Karadžić, che nel 2016 è stato condannato a 40 anni di carcere per genocidio. «Questa sentenza è coerente con quella a Karadžić – spiega Alfredo Sasso – e anche con le sentenze ai danni di altri tre ufficiali dell’esercito serbo-bosniaco, che erano stati anche condannati all’ergastolo. Si è riportata una certa coerenza nella giurisprudenza perché ci sono stati dei momenti in passato dove l’operato del tribunale è stato anche legittimamente oggetto di critiche». Il riferimento è in particolare al caso delle sentenze su Ante Gotovina, il generato croato responsabile dell’operazione Tempesta ai danni della popolazione civile serba, così come ad altri ufficiali serbi che sono stati assolti. «C’è stata una fase, tra il 2012 e il 2013, in cui il tribunale ha adottato dei criteri particolarmente restrittivi per emettere condanne. Non è però il caso delle più recenti sentenze. Anzi, nel caso di Mladić abbiamo una condanna all’ergastolo rispetto a quella a 40 anni di Karadžić che aveva creato molti malumori a Sarajevo, soprattutto tra le associazioni di vittime e della società civile».

Se è possibile ritenere che a livello giudiziario si sia chiuso un capitolo, al netto del ricorso che verrà presentato dai legali di Mladić, quello delle responsabilità durante la guerra degli anni Novanta è un tema che non ha ancora smesso di dividere, tanto a livello di leadership quanto a livello di opinione pubblica. Secondo Sasso, «vedendo le reazioni delle istituzioni politiche, a cui corrispondono anche le politiche educative, come i libri di testo e i programmi universitari, le interpretazioni della guerra degli anni Novanta sono radicalmente distinte nella regione ex jugoslava e in Bosnia-Erzegovina e soprattutto nel caso di Mladić ci sono state delle reazioni di aperto negazionismo». Oggi la televisione privata serba Pink definiva “vergognosa” la sentenza, mentre il giorno prima del verdetto Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, una delle due principali entità che costituiscono la Bosnia ed Erzegovina, ha affermato che Mladić è una leggenda per il popolo serbo. «Non siamo – chiarisce Sasso – di fronte a una riabilitazione, ma proprio a una glorificazione dei vertici militari che si sono macchiati di crimini più o meno gravi. Questa è una costante, ma la reazione di Dodik è stata molto al di là di quelle degli ultimi anni». Da Belgrado invece, come riporta il quotidiano Danas, il presidente serbo Aleksandar Vučić ha parlato della necessità di rivolgersi al futuro. «Può essere anche un’attitudine comprensibile», spiega Alfredo Sasso, «ci sono sicuramente anche tanti bosniaci, soprattutto tra i giovani, che vogliono guardare al futuro, però serve un’empatia e un mutuo riconoscimento delle sofferenze altrui che da parte anche della leadership della Serbia non è arrivato ed è una condizione necessaria per il futuro».

In un contesto in cui il tema dell’appartenenza ha dettato gli schieramenti e i comportamenti per molti anni, colpisce il silenzio della chiesa ortodossa serba, accusata di aver protetto l’ex generale durante la sua lunga latitanza e di non aver mai condannato fino in fondo i suoi comportamenti. La scelta di rimanere ai margini della questione può essere letta in diversi modi, ma rischia di non consentire il necessario passo verso la fine, questa volta anche storica, del capitolo.

Immagine: di Martijn.Munneke, via Flickr