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Il caso Djalali non è ancora chiuso

Negli ultimi dodici mesi, dalla vittoria di Donald Trump nelle elezioni statunitensi, di cui ricorre l’anniversario in questi giorni, l’Iran è tornato in modo prepotente sui giornali. Tra chi contesta l’accordo sul nucleare siglato nel luglio del 2015 e chi si dice preoccupato per la rinnovata strategia di espansione dell’influenza di Teheran sul Medio Oriente, quel che è certo è che il regime guidato da quasi 40 anni dagli ayatollah sta vivendo una fase di protagonismo, soprattutto sul piano internazionale, tale per cui ogni sua azione merita attenzione.

La rappresentazione schematica degli schieramenti, che utilizza lo storico conflitto tra sunniti e sciiti come unica chiave di lettura dell’intera regione e di tutta la vicenda iraniana, non esaurisce di certo la questione. Probabilmente, però, fa passare in secondo piano un aspetto che accomuna Teheran al suo più grande rivale, quell’Arabia Saudita nostra alleata e da giorni al centro di un’altra “bolla” informativa: il rispetto dei diritti umani e politici. Il clima di sospetto permanente che aleggia su tutto il Medio oriente fa sì che la repressione interna sia sempre più forte, tanto a Riyadh quanto a Teheran. Riferendosi all’Iran, nel suo rapporto 2016/2017 Amnesty International racconta che «le autorità hanno pesantemente soppresso la libertà di espressione, di associazione, di assemblea pacifica e di credo religioso, imprigionando critici e non solo dopo processi evidentemente ingiusti». Molti di questi rimangono solo numeri, storie di poche righe che si ritrovano nei rapporti e che rappresentano spesso fallimenti diplomatici o legali. Questo rischio, in parte, lo corre anche una storia che è riuscita a raggiungere l’attenzione dell’informazione italiana, quella di Ahmadreza Djalali, un docente e ricercatore iraniano di 46 anni, specializzato in medicina dei disastri e assistenza umanitaria e che ha insegnato nelle università di Belgio, Svezia e Italia, nello specifico all’Università del Piemonte orientale.

Djalali è detenuto a Teheran dall’aprile del 2016, arrestato con l’accusa di spionaggio, ed è stato condannato a morte alla fine di ottobre 2017. «Uno dei suoi avvocati – racconta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia – ha potuto vedere il verbale contenente l’accusa e dunque la sentenza. L’accusa, tradotta in termini moderni, è quella di spionaggio, mentre secondo la dicitura di derivazione coranica Djalali avrebbe “seminato discordia sulla Terra”».

Su quali basi sta in piedi questa accusa?

«Secondo noi nessuna. Il processo è stato viziato da irregolarità, lo stesso Djalali ha dichiarato di essere stato torturato, di aver ricevuto minacce per sé e per la sua famiglia se non avesse confessato. In ogni caso è inconcepibile che possa essere emessa una condanna a morte nei confronti di un ricercatore che nient’altro ha fatto nella sua vita se non svolgere ricerca in vari Paesi europei».

L’accusa di “aver sparso corruzione sulla Terra” è molto difficile tanto da dimostrare quanto da smentire, tanto è generica la sua formulazione. Quali strade rimangono aperte per via legale e con quali possibilità di successo?

«Ora ci sarà l’appello e se dovesse andare male anche quello ci sarà il riesame anche da parte della Corte suprema iraniana. Il tempo c’è, potrebbero volerci settimane o mesi. Comunque, così come in passato, quando si fa un’attività di advocacy costante che non diminuisce dopo una settimana, le autorità iraniane ne tengono conto. Devo dire che il caso è talmente noto che per le stesse autorità di Teheran, che stanno cercando di recuperare rapporti normali anche con quegli stessi Paesi europei in cui Djalali ha fatto ricerca, sarebbe davvero autolesionista procedere con questa condanna a morte. Ho molta fiducia del fatto che si possano convincere, riesaminando il caso in appello, che le accuse sono inconsistenti».

Per un Paese come l’Iran, che si sta affacciando presso la comunità internazionale, quanto ha senso forzare la mano su casi come questo rischiando ulteriore isolamento? E quale dev’essere la risposta occidentale?

«Se si vuole salvare una persona bisogna continuare a parlare con i vari Paesi anziché scrivere delle boutade su Twitter come fa il presidente degli Stati Uniti. Sarebbe incomprensibile unirsi alla volontà del presidente Trump di isolare nuovamente l’Iran rinunciando a ogni spazio di dialogo e di convincimento. Poi, è chiaro che se i rapporti in corso non producono nulla, vedi il caso dell’Egitto, allora forse c’è da riflettere sulla capacità della politica italiana ed europea di porre al centro di questa relazione il tema dei diritti umani».

In termini di diplomazia il nostro Paese sta facendo qualcosa? Ha la possibilità di muoversi su questo caso?

«I rapporti sono ottimi, ormai siamo diventati un partner commerciale di primissimo piano. Questi rapporti vanno usati: l’ambasciata italiana a Teheran si sta muovendo, così come le autorità svedesi, quindi questo spazio di manovra c’è, bisogna saperlo usare in maniera intelligente rivendicando che un ricercatore dovrebbe essere considerato un’eccellenza del Paese, un fiore all’occhiello. Uno scienziato che si occupa di medicina dei disastri fa molto più comodo nel Paese in cui è nato e può portare le capacità scientifiche dell’Iran oltre confine. È paradossale che poi lo si accusi di aver usato questa sua notorietà internazionale per fare spionaggio. Lui peraltro sostiene esattamente il contrario, cioè che l’arresto e la condanna sia una rappresaglia perché i servizi iraniani gli hanno chiesto di fare spionaggio nei mesi in cui andava a lavorare in Europa e lui è si è rifiutato».

Immagine di amnesty.it