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Rasha

L’associazione Musei d’Arte Contemporanea e la Fondazione Cultura di Noli, hanno inaugurato il 14 ottobre l’esposizione dell’opera Rasha dell’artista Adrian Paci. Si tratta di un video che è stato posto all’interno di una chiesa della cittadina in provincia di Savona.

Una continuazione dell’opera si trova sulla facciata esterna della chiesa: l’associazione ha infatti pensato di estrarre un frame del video, stamparlo su un supporto di tela di 2×3 metri e apporlo dove di solito si possono ammirare immagini e affreschi di carattere sacro. L’impatto è piuttosto forte perché il volto di una donna domina l’ingresso di un edificio sacro cattolico. La donna è Rasha e nel corso della visita si può conoscere la sua storia.

Intanto ne parliamo con Gloria Bovio, presidente della fondazione culturale Noli e curatrice della mostra.

Chi è Rasha?

«Rasha è una donna siriana di 35 anni che è arrivata in Italia grazie ai corridoi umanitari della comunità di Sant’Egidio e della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, dopo una serie di vicissitudini familiari e di guerra. È una donna palestinese che Adrian Paci ha incontrato nella comunità di Sant’Egidio, ha voluto farle un’intervista e realizzare l’opera che noi esponiamo nella chiesa di San Francesco».

Perché scegliere una chiesa per esporre l’opera?

«Innanzitutto la chiesa è consacrata, quindi per procedere abbiamo dovuto chiedere i permessi alla Soprintendenza e alla Diocesi. Abbiamo ricevuto il vescovo Carmelo Marino, che è venuto all’inaugurazione, così come tutto l’ufficio Beni Culturali della Diocesi di Savona; siamo anche stati pubblicati sul loro giornale. È stato tutto assolutamente straordinario. Devo dire che non è stata posta alcuna resistenza, nel senso che tutti hanno capito immediatamente l’importanza di questo messaggio. In Italia non è mai successo che il volto di una donna palestinese, una donna non cristiana, un volto non sacro, venisse affisso sulla facciata di una chiesa».

Cosa vuole rappresentare questo volto?

«Rasha rappresenta il dolore di tutte le donne, di tutte le vittime di guerra ma non solo, perché ha anche un vissuto familiare molto pesante; non dobbiamo necessariamente fare la traversata del Mediterraneo per trovare questo problema sociale qui da noi. Sbattere in faccia a tutti il volto sofferto di questa ragazza, vuole portare all’attenzione un problema che riguarda tutti noi, quella della condizione femminile e delle violenze che spesso le donne subiscono, un problema molto grande che non riusciamo a risolvere.

L’installazione non si compone solo di questo frame, ma anche del video all’interno della chiesa, che è stato simbolicamente proiettato sopra l’altare come una gigantesca pala sulla quale si assiste all’intervista di questa donna che racconta la sua vita nella sua lingua. Lo spettatore quando entra è al buio e vede sul fondo solo il video del quale non si capiscono le parole. Noi regaliamo a tutti i visitatori un grande manifesto, molto grande, molto ingombrante, perché la storia è ingombrante, dietro al quale c’è scritta la traduzione dell’intervista».

L’edificio scelto per l’installazione porta subito a un discorso sulla sacralità. Cos’è sacro per voi?

«Sacra è la facciata, sacro è il volto di questa donna, sacro è il percorso che lo spettatore percorre per andare a vedere questo video, ad ascoltare questa voce. Tutta l’installazione, tutto quello che c’era e tutto quello che abbiamo aggiunto, tutto quello che rimane allo spettatore quando va via e si porta a casa, con questo manifesto, un pezzo di questa storia inquietante.

Non c’è la sensazione di aver desacralizzato un luogo proprio perché stiamo parlando di un problema forte che riguarda tutti noi, indipendentemente dalla religione e dal Paese di provenienza. Io credo che la donna, mai quanto oggi, debba essere difesa e la sua vita debba essere ritenuta sacra. Purtroppo i riscontri che abbiamo, quando accendiamo il telegiornale ogni sera, sono ben diversi».