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Referendum o no?

Sale la tensione in Spagna per il possibile referendum della Catalogna, giudicato illegale dal Tribunale costituzionale. Lo stato centrale è intimorito dalla determinazione di chi vuole la votazione e ha inviato la Guardia civile a sequestrare 9,8 milioni di schede elettorali, ha bloccato l’invio delle lettere di convocazione dirette agli scrutatori e ha ordinato a Mossos d’Esquadra, la polizia catalana di impedire l’apertura delle scuole e altri locali designati come seggi (che hanno detto esplicitamente che in questo modo si metterà a rischio l’ordine pubblico); Madrid ha anche punito i membri della commissione elettorale e altri amministrativi con pesanti multe. Il governo catalano, da parte sua, ha detto che il referendum si farà lo stesso e che il risultato sarà valido anche senza quorum: ad oggi, però non è ancora chiaro come potrà svolgersi questa votazione. Ne discutiamo con Jacopo Rosatelli, giornalista e osservatore delle dinamiche della penisola iberica.

In questa vicenda colpisce molto la paura di Madrid: è una paura consueta per ogni stato che tema i separatismi, o c’è una specificità catalana?

«Direi che c’è una specificità spagnola, perché la Spagna è uno stato plurinazionale, ci sono regioni periferiche che hanno una loro lingua, come la Galizia, la Catalogna o i Paesi Baschi, e da quarant’anni, da quando è tornato ad essere democratico, il paese fa i conti con questo problema. Per capire cosa sta succedendo occorre capire che la Spagna è uno stato particolare, se confrontato con l’Italia o con la Francia, quindi è ovvio che la preoccupazione del governo centrale di Madrid sia che se la Catalogna dovesse ottenere l’indipendenza, a quel punto potrebbero seguire l’esempio anche gli altri, in un movimento centripeto che potrebbe non avere mai fine. Questo il problema di fondo, che rispetto ad altri contesti fa aumentare la preoccupazione. Dopo di ché è anche vero che qualunque stato europeo attuerebbe delle misure per impedire la secessione di una propria parte, salvo il Regno Unito, che però ha una storia completamente diversa, non c’è una costituzione scritta, e così via, dunque confrontarlo con l’Europa continentale è sempre un esercizio che lascia il tempo che trova».

A proposito di confronti, qualcuno scriveva del “rischio balcanico” della situazione spagnola: che ne pensa?

«Sono d’accordo con i Balcani come metafora. Ovviamente ogni vicenda è a sé, nei Balcani iugoslavi c’era una lunga storia che veniva da molto lontano, dalla fine dell’Impero Austroungarico e l’Impero Ottomano, differenze religiose molto forti ed è ovvio che un confronto diretto non ha senso. Però è vero che se li pensiamo come una metafora di un confronto nazionalistico di violenza prima verbale e poi fisica fra nazioni contrapposte, si può applicare alla questione spagnola oggi. Dunque penso sia da guardare con preoccupazione ciò che sta succedendo, siamo di fronte a opposti estremismi. Uno nazionalista indipendentista, che con le forzature verbali e ideologiche sta calpestando le regole del gioco che valgono per tutti gli spagnoli, dall’altra parte c’è un estremismo dell’indifferenza, della capacità di comprendere e di ascoltare da parte del governo spagnolo. Lo stesso El Pais, che comunque difende a spada tratta l’unità nazionale, sta accusando Rajoy di totale inettitudine. Il governo centrale spagnolo pensa di poter rispondere a una grave crisi costituzionale e politica semplicemente lasciando fare la magistratura o la polizia. Questo è un errore enorme che rischia di compromettere la stessa causa che il governo spagnolo vuole difendere, ovvero l’unità del paese».

Occorre guardare con attenzione a queste vicende: l’Europa lo sta facendo?

«L’attenzione è scarsa ma non mi stupisce, la classe dirigente europea non brilla in nessun campo, come migrazione o il riequilibrio sociale tra nord e sud e quindi tanto meno può farlo in una vicenda che allo stato attuale è interna a un paese. Per le regole della diplomazia internazionale ed europea è normale che la Commissione Europea non voglia intervenire nelle questioni spagnole. Per tornare al rischio balcanico, è vero però che serve un’attenzione internazionale: i Balcani ci hanno insegnato che degli interventi esterni affrettati, interessati e quasi imperialistici hanno combinato il dramma che purtroppo è accaduto. Se la Germania e il Vaticano non si fossero affrettati a riconoscere le secessioni di Slovenia e Croazia probabilmente non sarebbero accadute le mattanze che ricordiamo. Quindi è importante che chi è fuori dai confini spagnoli agisca con prudenza, rigore e attenzione per favorire un’intesa politica. La strada che credo sia l’unica possibile è quella che sta cercando di praticare Podemos, che sostiene che la Spagna sia uno stato plurinazionale, e che le istanze legittime di autodeterminazione dei catalani vadano ascoltate ma ricondotte dentro un quadro di legalità costituzionale, trovando un’intesa fra le parti, che consenta alla popolazione catalana di esprimersi all’interno di un quadro di legalità. Perché fare delle forzature contro la costituzione, qualunque sia la causa che si difende, può essere molto pericoloso. Dall’esterno, si dovrebbe guardare con interesse e simpatia allo sforzo di Podemos e verso lo sforzo di tutti quelli che in Spagna stanno dicendo di trovare un’intesa ascoltandosi e facendo lo sforzo di capire le posizioni degli altri. Sia il fronte del referendum, sia quello unitario, sono molto variegate al loro interno, rappresentarli come due monoliti, Barcellona contro Madrid come fosse una partita di calcio, è sbagliato e controproducente».

Cosa è auspicabile per il 1 di ottobre?

«Io auspico che il primo di ottobre ci sia una mobilitazione politica da parte del Fronte indipendentista catalano, che trovi le forme per esprimere una legittima istanza politica senza andare a uno scontro che potrebbe produrre conseguenze molto negative: votare per strada o in una scuola pubblica sono due cose molto diverse. Se si vota in circoli ricreativi, sotto i gazebo – come le nostre primarie, per intenderci – è un esercizio di partecipazione e democrazia dal basso, che vuole lanciare un messaggio. Se questo accade sarà una festa della democrazia e se il governo reprimesse questo, ovviamente lo scenario cambierebbe e l’escalation drammatica sarebbe accelerata. Ma sei il governo catalano volesse aprire i cancelli delle scuole pubbliche e installare delle urne come fosse una consultazione legale, inevitabilmente le forze di polizia interverrebbero. Quindi speriamo che ci si accontenti di una grande mobilitazione di massa che avrebbe comunque un grande peso politico, che però solleverebbe tutti dal rischio di violenza grave. Vorrebbe dire avere una mobilitazione politica pacifica contro dall’altra la legittima difesa dell’ordine costituzionale, che fino a prova contraria è dovere di ogni governo. Anche questa è la posizione di Podemos, che interpreta quella giornata come una mobilitazione a favore del diritto a decidere».

Immagine: via Pixabay