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Le tristi battaglie politiche intorno allo «Ius soli»

La legge sullo Ius soli è nuovamente scomparsa dal calendario del Senato. Dopo essere stata approvata alla Camera alla fine del 2015, dopo due anni ancora non ha visto la luce. Interessi politici e giochi delle parti hanno nuovamente rimandato una legge che, al di là delle irresponsabili strumentalizzazioni che ne sono state fatte, si limita a adeguare, in modo per altro anche piuttosto timido, la normativa in materia di cittadinanza al paese reale. Oggi infatti, sono 800.000 i piccoli italiani che, pur essendo nati, cresciuti e istruiti in Italia, continuano a essere considerati «ospiti», potenzialmente espellibili se i loro genitori perdono il diritto a risiedere legalmente in Italia (ovvero, banalmente, se perdono il lavoro in un paese il cui tasso di disoccupazione supera l’11%).

La nuova legge, niente di più, niente di meno, permetterebbe a questi minori di ottenere la cittadinanza prima del compimento della maggiore età a condizione che abbiano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni superando come minimo un ciclo scolastico, e che almeno uno dei due genitori viva legalmente in Italia da cinque anni (perché per gli stranieri, si sa, le colpe dei padri ricadono sui figli). La riforma sullo Ius soli, peraltro, modificherebbe i requisiti per l’ottenimento della cittadinanza esclusivamente per i minori. Per gli adulti resterebbe invece in vigore l’attuale normativa, assai più restrittiva rispetto a quella degli altri paesi europei.

Perché, allora, dietro una legge così «temperata» e così decisamente di buon senso si stanno combattendo tali battaglie politiche? Probabilmente per lo stesso motivo per cui non si dice mai che gli stranieri che lavorano in Italia producono 127 miliardi di ricchezza, paragonabile al fatturato del gruppo Fiat. O che il contributo economico dell’immigrazione si traduce in quasi 11 miliardi di contributi previdenziali pagati ogni anno, in 7 miliardi di Irpef versata, in oltre 550.000 imprese straniere che producono ogni anno 96 miliardi di valore aggiunto.

Da anni ormai, la classe politica italiana, perennemente alla ricerca di un consenso perduto, utilizza il fenomeno migratorio come strumento per vincere voti e per guadagnare consensi. Ciò è possibile, come ha recentemente scritto Ezio Mauro su La Repubblica, a causa di un «sentimento di incertezza e di smarrimento identitario» che sta crescendo tra le fasce più deboli della popolazione, confuse e spaventate da un mondo apparentemente complesso e ingovernabile. È così, perciò, che una narrazione politica cinica e irresponsabile cavalca e si nutre della paura dei cittadini più fragili, e lo straniero diventa merce straordinariamente appetibile.

Questo succede in Italia, ormai da tempo abituata a un panorama politico asfittico, ma anche negli Stati Uniti dell’era Trump dove il 5 settembre scorso il Presidente ha annunciato la fine del Daca (Deferred Action for Childhood Arrivals), un importante programma voluto dall’amministrazione Obama che ha reso inespellibili gli immigrati irregolari arrivati negli Stati Uniti da bambini, a seguito dei loro genitori, e che ora studiano o lavorano in America.

Anche oltreoceano, come da noi, la ricerca del consenso assecondando gli istinti e cavalcando le paure è la scorciatoia più comoda per una classe politica incapace di governare le complessità della globalizzazione. Poco importa che così facendo si tradiscano proprio quei valori, quelle tradizioni e quella identità che tanto si vorrebbero difendere.

Immagine: via Pixabay