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Il vuoto dopo l’accoglienza

Lunedì 4 settembre a Roma è avvenuto un nuovo sgombero nei confronti dei rifugiati che già erano stati allontanati il 24 agosto dal palazzo di via Curtatone, occupato sin dal 2013 da persone in gran parte titolari di protezione internazionale o umanitaria. In questo caso, l’azione della polizia si è rivolta a un presidio allestito ai Fori Imperiali, dove avevano trovato rifugio 56 persone, allontanate e in parte ricollocate in modo temporaneo in due centri d’accoglienza, uno in zona Casalotti e uno in zona Casilina, entrambi all’esterno del Grande raccordo anulare.

Con la mancata partecipazione di rappresentanti del Comune di Roma, lo sgombero ha segnato un nuovo distacco tra la politica, anche locale, e l’accoglienza e l’integrazione dei titolari di protezione. Secondo Gianfranco Schiavone, vicepresidente di Asgi, Associazione per gli studi giuridici per l’immigrazione, «questi sgomberi hanno come obiettivo quello di gettare sulla strada le persone e non di spostarle da un’altra parte, quindi privarle del luogo essenziale in cui vivere e metterle in una condizione di marginalità sociale estrema». Si tratta, prosegue Schiavone, «di persone indifese che non avevano a loro carico nessun reato se non quello dell’occupazione di un posto abbandonato da anni. Certo, l’occupazione non era legale, ma durava da moltissimo tempo, non c’erano problemi se non per le persone stesse che abitavano in condizioni di degrado e una soluzione sociale e politica doveva e poteva essere trovata in questi molti anni».

La vicenda di Roma non è isolata: per esempio, nel marzo del 2013 a Torino, in seguito al programma Emergenza Nord Africa avviato nel 2011, due delle sette palazzine dell’ex Villaggio Olimpico di Torino 2006 furono occupate dai rifugiati, anche in quel caso titolari di protezione, che si trovavano senza vitto, alloggio e supporto. Da allora, altre palazzine del complesso sono state occupate, mentre la politica non ha ancora trovato nessun percorso di gestione.

In termini di diritto, che cosa tiene insieme queste due vicende?

«Innanzitutto il problema è comune, cioè la mancanza di un piano nazionale per l’integrazione sociale dei rifugiati, dei titolari di protezione sussidiaria. Il nostro Paese, caso per fortuna quasi unico nell’Unione europea, non ha nessun programma specifico per aiutare uno straniero che ha ricevuto una protezione internazionale a inserirsi nella nostra società. Dobbiamo partire dalla considerazione che ci si trova di fronte a una persona che nella stragrande maggioranza dei casi non è riuscita ancora a trovare un lavoro, non ha una casa, non ha una rete familiare, conosce a malapena la lingua italiana».

Eppure questi non dovrebbero essere compiti dei progetti di accoglienza?

«Certo, però ci sono casi in cui il percorso di accoglienza è stato negativo, perché magari la persona è stata “parcheggiata” presso qualche grande struttura periferica, magari senza accesso a corsi di lingua italiana o a una qualche formazione professionale. Inoltre, se aveva titoli di studio nel suo Paese d’origine, non li può riconoscere e comunque la sua qualifica è andata persa dal punto di vista della fruibilità amministrativa in Italia. Insomma, parliamo di un soggetto debole rispetto al quale c’è bisogno di una sorta di programma di startup, un programma di avvio all’autonomia e non già il solo rinvio alla mera assistenza sociale. Ricordiamo sempre che parliamo del percorso per far ripartire la nuova vita di una persona».

Per chi vive un percorso di accoglienza negativo cosa è previsto?

«Niente. Non tutti ce la fanno da soli, non tutti hanno le capacità, le competenze per farlo, nonostante tutto, e lo Stato italiano non ha un programma per supportare le persone. Di conseguenza, quello che caratterizza oggi l’Italia sono decine di migliaia di persone che ogni anno finiscono in condizioni di marginalità sociale, cioè terminano la loro accoglienza di richiedenti asilo e finiscono sulla strada senza avere una casa e senza avere un lavoro».

Dove non si arriva con la politica, come in questi casi, ci sono delle strade che possono essere intraprese, magari per via giudiziaria? Quali strumenti ha una realtà come Asgi per dare supporto almeno a una parte di queste persone?

«Purtroppo esistono strumenti solo in relazione ad alcune specifiche violazioni di legge che vanno viste caso per caso e che riguardano lo sgombero, le sue modalità e le violenze che sono state compiute. Il problema però è che sulla questione del mancato accesso a un programma per l’integrazione abbiamo invece strumenti molto scarsi, perché le persone dovrebbero poter avere quantomeno un accesso ai servizi di assistenza sociale del territorio. Spesso questo non avviene perché le persone non hanno una residenza, visto che nessuno l’ha fornita loro, nonostante faccia parte dei loro diritti addirittura già nella fase in cui sono richiedenti asilo; a volte il comune in cui si trovano, Roma oppure Torino, si è addirittura rifiutato di fornire l’assistenza sociale proprio in virtù della mancanza di una residenza. In termini brutali, siamo in un ginepraio in cui la tutela di anche un singolo caso richiede uno sforzo enorme. Obiettivamente, in Italia il sistema dei diritti dei soggetti deboli fa acqua da tutte le parti».

Che fine fanno solitamente queste persone?

«I canali principali sono due, uno in Italia e uno all’estero. Spesso queste persone entrano nella marginalità sociale in Italia, e da qui discendono le occupazioni e il lavoro nero, o addirittura il grave sfruttamento e la riduzione in schiavitù, come nel caso dell’agricoltura nel mezzogiorno. L’altra strada, che noi non vediamo e quindi non ci interessa, ma che non è meno grave se guardiamo il sistema europeo, è il fatto che le persone se ne vanno dall’Italia con il titolo di protezione europeo e vanno a vivere e lavorare in nero in altri Paesi dell’Unione europea. In entrambi i casi è lo specchio di un gigantesco fallimento del sistema pubblico italiano».

Ritornando a Roma, a Piazza Indipendenza, quali sono le prospettive per queste persone?

«È probabile che queste persone, che non avevano scelto a suo tempo di andare all’estero, rimarranno qui. La stragrande maggioranza rimarrà a vivere in occupazioni più piccole e sparpagliate in Roma, oppure si sposterà e andrà a ingrossare quelle di Napoli, di cui non si parla molto, della Campania o di altre zone. Sicuramente queste persone sono sempre più spinte verso la marginalità sociale, preda della criminalità e dello sfruttamento».