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Migrazioni, i centri di detenzione in Libia non sono la risposta giusta

Nel campo delle migrazioni, il mese di agosto è stato segnato da una decisa riduzione del numero di persone che hanno attraversato il Mediterraneo lungo la sua rotta centrale, che va dalla Libia alla Sicilia: in tutto l’agosto 2017 sono arrivati in Italia meno di un terzo dei migranti sbarcati un anno fa, poco più di 8.000 contro gli oltre 25.000 di un anno fa.

Anche se il governo italiano aveva inizialmente dato il merito della diminuzione degli sbarchi al “codice delle Ong” voluto dal ministro dell’Interno, Marco Minniti, con il quale si sono stabilite regole che nei fatti hanno portato a una riduzione dell’azione di salvataggio, è più plausibile che questo calo sia dovuto al diminuito numero di partenze. Anche qui, però, la dinamica non è troppo chiara, perché la rinnovata attività della Guardia costiera libica da sola non spiega la tendenza, visto che si tratta in realtà di milizie spesso sovrapponibili agli stessi trafficanti di esseri umani che soltanto due mesi fa imbarcavano a forza le persone. Secondo i dati dell’Unhcr, il numero di migranti intercettato dalla guardia costiera libica è aumentato di meno del 4% rispetto a un anno fa, mentre la diminuzione delle partenze è vicina all’80%.

C’è poi un altro dato che è stato accolto in modo acritico: secondo l’Oim, Organizzazione mondiale per le migrazioni, negli ultimi 20 giorni non ci sono state segnalazioni di migranti morti sulla rotta del Mediterraneo centrale. Il dato, confermato anche da Unhcr, è sicuramente positivo, ma nasconde un “non detto”: meno migranti lungo la rotta del Mediterraneo significa avere una maggiore presenza di persone nei campi di detenzione libici, luoghi caratterizzati da violenza sistematica e altrettanto strutturale assenza di regole, al punto da rendere impossibile anche soltanto definire i numeri delle persone rinchiuse.

Medici Senza Frontiere, una tra le più importanti organizzazioni non governative attive nel prestare soccorso medico in scenari di conflitto, come lo Yemen o la Libia stessa, lavora in questi centri da circa un anno e ha recentemente pubblicato un rapporto nel quale denuncia le condizioni a cui sono sottoposti i detenuti. Gabriele Eminente, direttore generale di Msf, racconta che «in questo momento lavoriamo con i nostri medici in 7 centri, in particolare nell’area di Tripoli. In passato siamo stati presenti anche in un numero maggiore di centri».

A livello sanitario quali sono i principali bisogni di chi è rinchiuso arbitrariamente in questi centri?

«In questo periodo abbiamo curato circa un migliaio di detenuti ogni mese e quello che vediamo sono condizioni intollerabili. I centri libici sono luoghi in cui molto spesso lo spazio minimo necessario non è rispettato, a volte non c’è neppure lo spazio per stendersi e dormire la notte. Inoltre, la qualità e la quantità del cibo sono assolutamente insufficienti e lo stesso si può dire per l’acqua. Questo fa sì che persone sane che entrano in questi centri si ammalino a causa di infezioni del tratto respiratorio, gastroenteriti, malattie della pelle, tutte patologie che queste persone contraggono durante la loro detenzione. Oltretutto, e questo lo vediamo anche dalle persone che soccorriamo in mare con le nostre navi, spesso le persone hanno evidenti segni di violenza e tortura».

Com’è possibile lavorare nel contesto libico?

«Bisogna dire che i centri in cui lavoriamo sono controllati dall’autorità competente, quindi il ministero degli Interni che fa capo al governo di Fayez al-Sarraj, quindi siamo soltanto nell’area di Tripoli, in Tripolitania. Va detto anche che la situazione in Libia è così caotica e violenta che a volte ci sono aree che magari precedentemente erano sotto il controllo del governo che poi invece vengono “conquistate” da una qualche milizia locale, una tribù e così via. Ecco, a quel punto anche il centro cambia di gestore. È ovvio che, nel momento in cui subentra qualche attore diverso, per noi è molto più difficile avere accesso a questi centri, e possiamo immaginare quale siano le conseguenze terribili per le persone che ci sono dentro. Sono gironi infernali».

Che tipo di intervento si può condurre in questi centri?

«È un’azione esclusivamente medica: prendendo dei rischi non banali, i nostri medici hanno creato dei team mobili, delle cliniche mobili, che almeno una volta a settimana entrano nei centri in cui abbiamo negoziato l’accesso, ed entrando lì dentro possono portare cure alle persone che vi sono detenute. Medici Senza Frontiere è una delle pochissime organizzazioni che possono fare questo lavoro perché viene riconosciuta la nostra imparzialità e indipendenza. È un lavoro difficile proprio a causa delle condizioni di insicurezza e anche per il fatto che questi centri oggi sono gestiti da qualcuno e magari domani da qualcun altro e bisogna ripartire da capo con la negoziazione per avere accesso alle persone malate».

Quali persone si trovano all’interno di questi luoghi?

«Nei centri ci sono sia persone arrivate da poche settimane o pochi mesi, ma a volte abbiamo anche trovato, sia nei centri sia durante i salvataggi in mare, persone che magari erano immigrate in Libia aancor prima della caduta di Gheddafi e che in quel Paese sono state per anni e anni, magari per più di un decennio. Oggi però la situazione è cambiata, al punto che qualunque straniero può essere bloccato per strada da chiunque e può essere detenuto in maniera del tutto arbitraria senza nessun tipo di processo».

Eppure il governo italiano, sostenuto anche da altri leader europei, sembra voler spostare sempre di più a sud la frontiera europea, considerando i risultati del mese di agosto come totalmente positivi. Si tratta del giusto approccio alla questione migratoria?

«È una strada che ci allarma molto ma che l’Unione europea ha in realtà sposato già parecchio tempo fa. Dal punto di vista simbolico, probabilmente il caso più importante fino a oggi è stato l’accordo con la Turchia. L’approccio di esternalizzazione è tale per cui decido di rinunciare a gestire un problema obiettivamente complesso, forse epocale, come quella della migrazione, perché invece di provare ad avere una visione su questo, come nei decenni passati a volte è stato fatto, si decide di allontanare il problema, come a dire “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Non si vuole vedere il problema e quindi si paga qualcun altro per farlo, senza preoccuparsi di questioni come i diritti umani e la dignità di trattamento».

Quindi c’è una continuità tra l’accordo con la Turchia e gli attuali movimenti diplomatici in Libia?

«Sì, ma in questo caso l’approccio è ancora più preoccupante, perché con tutti gli enormi e vistosi limiti del governo turco, quantomeno quello è un Paese con un governo centrale che ha un controllo della situazione all’interno dei confini. Là dove parliamo della Libia, invece, parliamo di un contesto totalmente frammentato, sminuzzato in zone controllate da tantissimi attori. Non è un caso che abbiamo letto sui giornali di incontri non soltanto con Serraj, il capo del governo che controllerebbe la regione di Tripoli, ma anche di incontri con i sindaci, con i capi tribù, con tutta una serie di attori a livello locale che contribuiscono alla frammentazione della situazione. Se a questi accordi seguisse un finanziamento, come nel caso della Turchia, questo sarebbe ancora più rischioso perché parliamo di attori che sono veramente poco affidabili. Abbiamo letto sulla stampa internazionale negli ultimi giorni della riconversione di alcune milizie che fino all’altro ieri si occupavano di traffico degli esseri umani in milizie e che ora invece sono impegnate nel controllo, nel blocco e nella detenzione delle persone in Libia. Ecco, questo ci dice che coloro che fino a ieri lucravano sulla pelle dei migranti oggi, nell’arco di poche ore, si sono riconvertiti e sono degli squadroni orientati a bloccare questo flusso. Ecco, non vorrei mai che qualunque governo europeo, tantomeno il nostro, finanziasse attori di questo tipo».

Immagine: via Medici Senza Frontiere