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A Roma e Parigi si discute di come spostare la frontiera d’Europa

Spostare più a sud la frontiera meridionale dell’Europa: questo è il messaggio emerso nella giornata di lunedì 28 agosto dai vertici di Parigi e di Roma, entrambi dedicati al tema delle migrazioni.

Mentre nella capitale francese i capi di Stato e di governo di Francia, Germania, Italia, Spagna, Libia, Ciad e Niger, si sono dedicati a dichiarazioni di principio e a generiche affermazioni sulla necessità di gestire in modo differente i flussi migratori, a Roma il ministro dell’Interno italiano, Marco Minniti, ha incontrato i suoi omologhi di Ciad, Niger, Libia e Mali.

Differenti i contesti e differenti i termini utilizzati, insomma, ma almeno per il governo italiano un obiettivo comune, quello di gettare le basi di un riposizionamento della frontiera meridionale europea. L’incontro nella capitale italiana, il secondo tenuto su questo tema dal ministro degli Interni, ha ribadito le sue priorità, che vanno dal controllo dei confini marittimi e terrestri, con lo scopo dichiarato di contrastare i trafficanti di esseri umani, fino al sostegno a iniziative per il miglioramento economico dei Paesi di origine e transito. Per i ministri intervenuti, il nodo della questione sta proprio nella correlazione tra la mancanza di sviluppo e il fiorire di traffici illeciti, anche se su questo piano non ci sono, per ora, indicazioni pratiche o linee guida.

Al contrario, sembra essere molto concreta l’idea di creare ostacoli sempre più grandi al movimento di persone da sud a nord: l’idea, evidenziata tanto a Parigi quanto a Roma, è quella di aprire in Ciad, Libia e Niger dei centri di accoglienza con sportelli delle Nazioni Unite, sul modello di una struttura inaugurata nel 2014 ad Agadez, nel centro del Niger, uno tra i nodi più importanti delle migrazioni contemporanee. Secondo l’Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni, quel centro, voluto e promosso dal governo italiano, accoglie 30 nuovi migranti al giorno e ha portato a un significativo aumento dei rimpatri volontari, cresciuti dai 1721 del 2015 fino ai 5089 del 2016. Proprio l’Oim, insieme all’Unhcr, è stata citata durante il vertice come realtà da coinvolgere maggiormente proprio per definire e applicare degli standard a questi luoghi, che soprattutto in Libia rappresentano delle prigioni nelle quali non viene garantito nessun tipo di diritto a chi si trova all’interno.

In realtà, l’allontanamento della frontiera è già in atto: negli ultimi mesi, infatti, il governo italiano ha stipulato una serie di accordi con 14 sindaci e leader di comunità libici, tra cui quelli di Zuwarah e Sabratha sulla costa e Bani Walid e Ghat nell’interno, dove il governo di Tripoli, guidato da Fayez al-Sarraj e sostenuto proprio dall’Italia, non ha nessun controllo. Queste intese, sviluppate su alcune delle rotte che convergono verso l’Europa, hanno già portato a una forte diminuzione di persone che arrivano sulle coste libiche e promettono di incidere ancora di più in futuro, quando anche Ciad e Niger parteciperanno direttamente alla costruzione di un nuovo confine. Se da un lato questo sembra portare a una diminuzione degli sbarchi in Italia, dall’altra non si può non tenere conto della sorte di chi rischia in questo modo di rimanere intrappolato nel deserto del Sahara o nei centri di detenzione libici, impossibili da censire e da controllare.

I respingimenti che negli ultimi mesi venivano fatti in mare dalla guardia costiera libica su procura di quella italiana, infatti, ora si svolgono anche a terra e vengono eseguiti da gruppi armati che spesso non rispondono a logiche compatibili con il diritto internazionale.

In ogni caso, il percorso verso un deserto sempre più chiuso sembra avviato, tanto che a conclusione del vertice di Roma il governo del Niger ha proposto la creazione di altre tre strutture simili a quella di Agadez, distribuite lungo la direttrice sud-nord del Paese. La sensazione però è che in questa narrazione ci sia un’assenza molto rumorosa, quella dei diritti delle persone che, per necessità o scelta, decidono di lasciare il proprio Paese d’origine. Mentre a Parigi si ribadiva la necessità di distinguere tra rifugiati e migranti economici, nascondendo quindi sotto le parole la natura politica della distribuzione della ricchezza, a Roma non si parlava più dell’obiettivo di sviluppare canali umanitari verso l’Europa, un punto che soltanto alcuni mesi fa sembrava essere parte integrante della strategia Minniti.

Un obiettivo in realtà ci sarebbe, ed è quello contenuto nel piano preparato dall’Unione europea insieme all’Unhcr durante l’estate: 37.750 rifugiati da redistribuire quest’anno nei diversi Paesi europei. Tuttavia, a questa idea manca un elemento fondamentale: la disponibilità degli Stati ad accogliere le persone che hanno diritto alla protezione internazionale.

Ancora una volta, proprio come per il programma di ricollocamento dei richiedenti asilo da Italia e Grecia sviluppato tra 2015 e 2016, la sensazione è che questo progetto sia destinato a fallire a causa delle resistenze dei singoli governi: Bulgaria, Cipro, Croazia, Grecia, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia non hanno accolto nessun rifugiato allora e difficilmente lo faranno adesso, soprattutto alla luce di quanto sostenuto dalla Polonia e difeso dal cosiddetto gruppo di Visegrad. Varsavia, infatti, sostiene che che il ricollocamento, la cui mancata attuazione tra l’altro ha portato a una procedura d’infrazione comunitaria, rappresenti un rischio per la sicurezza del Paese, e si è quindi detta disposta a pagare multe, anche consistenti, piuttosto che accogliere rifugiati.

Mentre da un lato si continua a discutere, si avvia invece verso il completamento il progetto dei corridoi umanitari sviluppati dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia e dalla Comunità di Sant’Egidio, con il finanziamento dell’Otto per mille valdese: martedì 29 agosto sono arrivati a Fiumicino altri 35 profughi dal Libano, indicando ancora una volta una strada che non si può limitare a 1.000 persone perché rappresenta un’alternativa sostenibile e legale a un viaggio che, per contro, quando compiuto in clandestinità diventa sempre più pericoloso.

Foto di Dan Lundberg via Flickr