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Roberto Jahier, pastore, fotografo e interprete della propria gente

Del pastore Roberto «Tini» Jahier la Claudiana aveva già pubblicato il libro curato dal figlio Enrico e dal nipote Federico. «La guerra nelle valli valdesi» (2015) era stata un’iniziativa editoriale gradita a tutti coloro che avevano riconosciuto nelle foto del pastore-fotografo i momenti e i toni angosciati del periodo della guerra (in particolare a Villar Pellice) e della lotta di Liberazione. Ora avviene la «restituzione» di una dimensione più quotidiana, più serena di quelle stesse valli che sono state oggetto del ministero di Roberto Jahier oltre che della sua attività fotografica.

Se ne è parlato sabato 19, alla Galleria «Filippo Scroppo» di Torre Pellice, nella consueta serata della vigilia del Sinodo valdese-metodista legata alla presentazione di un libro della Claudiana. A presentare il «Calendario Valli valdesi» 2018, il direttore della casa editrice protestante Manuel Kromer, Federico Jahier e Sara Emmanuela Tourn, redattrice di «Riforma», che ha tracciato la storia del calendario.

Un calendario è un prodotto paradossale – ha detto Tourn –: è un oggetto d’uso comune con la caratteristica di essere… a scadenza, finito l’anno. Però non siamo di fronte a uno yogurt: scaduto il compito istituzionale, finito l’anno, il calendario vale per il portato di cultura, di identità, di storia che lo permea. Con uno studio analitico illustrato con un power-point, che ha preso in esame l’intera collezione dal 1940 a oggi, il calendario (fino a pochi anni fa «Valli nostre», ora «Valli valdesi» per rendere più agevole la sua diffusione oltre le valli del Pinerolese), Tourn ha spiegato che nel calendario ci sono ingredienti «visibili» e altri più segreti o quantomeno tipici e irripetibili dell’ambiente di riferimento: aldilà dei giorni del mese e di uno spazio grafico libero per segnarsi gli appuntamenti, che più o meno hanno tutti i calendari, c’è altro: il discorso del moderatore; l’indirizzario di chiese locali, pastori e opere evangeliche in Italia; da alcuni anni, poi, anche degli approfondimenti tematici, nel retro delle pagine di ogni mese.

Si tratta dunque di elementi attraverso i quali è possibile rintracciare dei pezzi di storia di una comunità di fede che vive della propria storia e del confronto con l’attualità: si vedano i testi legati agli anni di guerra, poi quelli legati alla deindustrializzazione e alle preoccupazioni per il futuro delle Valli, i problemi della diaconia e così via…. Fra gli argomenti approfonditi negli ultimi anni, come ricordato da Kromer, Calvino nell’anno 2009, l’attività del pittore Paolo Paschetto e poi di Filippo Scroppo.

Le tipologie di immagini, rintracciate da Sara Tourn lungo i decenni e attraverso le foto di molti autori, sono anche quelle che si ritrovano nel «corpus» delle foto di Jahier: architetture (soprattutto templi e istituti valdesi); occasioni di incontro (le feste del XV agosto, il XVII Febbraio, le confermazioni); le attività lavorative, come la fienagione.

Qui subentra il discorso estetico sul pastore-fotografo Roberto Jahier: quest’ultimo prediligeva (e quanto aveva ragione!) il bianco e nero come linguaggio che permette al fotografo di «dire la sua»: senza troppo anticipare i contenuti del calendario 2018, suggeriamo di guardare con attenzione, ma anche con emozione, le foto di gennaio e dicembre. Il bianco e nero, tra l’altro, oltre a non essere degradabile nel tempo (ma il nipote Federico ha giustamente parlato di un fascino dell’immagine colorata che si vira da sola col tempo – oggi si fa apposta con i programmi di fotoritocco, e c’è da chiedersi se non siamo diventati matti!), permetteva a Roberto Jahier di eseguire tutto il processo: scattata la foto, seguivano lo sviluppo e la stampa. Ora, chiunque abbia fatto fotografia in epoca pre-digitale sa che la parte più bella dell’operazione era proprio la stampa in camera oscura, la sua magia, con le rampogne di mogli e madri perché il bagno di casa veniva occupato da acidi graveolenti, corde tirate per stendere le stampe ad asciugare, luci di sicurezza.

Ma il fascino delle foto di Jahier stava nella sua totale adesione ai soggetti fotografati: uomo delle Valli, era parte del popolo che fotografava, anche se faceva discretamente valere l’autorevolezza dei pastori d’un tempo. I gruppi (ne ha fotografati tanti) non erano spontanei, nel loro presentarsi alla macchina fotografica: erano allestiti da lui come un coreografo farebbe con i ballerini, e le leggi dell’estetica compositiva erano rispettate pur nella naturalezza delle situazioni rappresentate.

Insomma, un’intera popolazione si sentiva rappresentata – dopo gli anni della tragedia del secondo conflitto mondiale –, tornava a vivere delle tradizioni, dei lavori stagionali, delle scadenze ecclesiastiche: e Roberto Jahier prestava la propria opera per mantenere viva questa consapevolezza identitaria, come fanno gli storici. Ne siamo ben lieti, e riconoscenti, è stato un gran contributo alla tenace sopravvivenza del popolo-chiesa.