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Visti temporanei, l’Europa dice no

Proposta e scartata. In pochi giorni è questo il percorso compiuto dall’idea che era stata lanciata dal viceministro degli Interni, Mario Giro, e dal senatore del Pd Luigi Manconi durante un’intervista con il quotidiano britannico The Times, pubblicata sabato 15 luglio.

Nell’articolo si parla dell’ipotesi italiana di rilasciare 200.000 visti temporanei per consentire a chi approda sulle nostre coste di circolare in Europa, un’opzione definita nuclear dal Times e che sembra mirata a far “saltare il banco” delle negoziazioni sulla gestione dei flussi migratori, che vede l’Italia sempre più isolata rispetto agli altri Paesi europei, che una volta di più preferiscono voltarsi dall’altra parte rispetto alle morti in mare e alle cause delle migrazioni forzate.

Il senatore Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, ha confermato quanto scritto dal Times. «A parte la cifra – ha spiegato – che è puramente di fantasia e che posso garantire non è stata indicata né da me né dall’altro interlocutore, tutto il resto risponde a verità».

Nel dettaglio, la proposta nasce alcune settimane fa da un’idea del viceministro Giro, dalla Comunità di Sant’Egidio, dai Radicali italiani, dalla Commissione diritti umani del Senato e dall’associazione A buon diritto, che chiedono che venga presa in seria considerazione una misura che si fonda sulla direttiva 55 del 2001 dell’Unione europea, che si occupa delle “norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi”. La direttiva venne sviluppata in seguito alla crisi umanitaria in Kosovo del 1999, quando si decise di fornire un percorso di protezione per grandi numeri di persone in fuga da conflitti e persecuzioni.

Secondo Luigi Manconi, la direttiva consente di «dotare gli sbarcati in caso di un’affluenza particolarmente elevata di un documento di protezione umanitaria provvisoria che permetterebbe loro di muoversi all’interno dell’Unione stessa». Si tratta di una misura che, spiega ancora il senatore Manconi, «in una forma non troppo diversa è già stata attuata nel 2011 dal governo Berlusconi, che aveva fatto ricorso all’articolo 20 del testo unico della legge sull’immigrazione».

Lunedì 17 luglio la questione è approdata sui principali quotidiani italiani, ma il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, si è affrettato a smentirla, sostenendo che il tema «non è all’ordine del giorno». Allo stesso modo, l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Moghereni, ha sottolineato che il punto non è stato discusso durante il Consiglio Affari esteri che si è svolto lunedì a Bruxelles.

Oltre alle differenti visioni politiche, la questione divide anche per le procedure: i proponenti sostengono che sia possibile sin da subito attivare questa opzione, ma il testo della direttiva recita che «qualora persistano motivi per la concessione della protezione temporanea, il Consiglio può deliberare a maggioranza qualificata, su proposta della Commissione, la quale esamina parimenti qualsiasi richiesta presentata dagli Stati membri affinché sottoponga al Consiglio una proposta di prorogare detta protezione temporanea di un anno». Insomma, le condizioni affinché questa ipotesi si possa realizzare sembrano abbastanza remote, dipendendo in gran parte dalla volontà politica della maggioranza degli attori coinvolti.

Il nodo più profondo della questione, ancora una volta, va cercato nel Regolamento di Dublino, secondo cui i richiedenti asilo devono rimanere nel Paese che sta esaminando la richiesta, senza potersi quindi spostare liberamente nell’area Schengen come invece accadrebbe con un permesso di soggiorno. La riforma del Regolamento, giunto alla sua terza versione, si allontana mese dopo mese e anno dopo anno, perché i governi non riescono a trovare nessun accordo sul rapporto tra la condivisione delle responsabilità e il principio di solidarietà. Mentre i Paesi dell’Europa meridionale, prima di tutti Italia e Grecia, ritengono necessario superare, magari solo nel caso di condizioni di emergenza, l’attribuzione di competenza legata alla geografia, nel nord dell’Unione l’idea viene vista come un pericolo, perché si ritiene che le persone tenderebbero a muoversi e viaggiare sempre di più verso i Paesi in grado di offrire migliori livelli di protezione e accoglienza. La questione era emersa con forza soprattutto con la crisi della “rotta balcanica” del 2015, quando circa 800.000 persone in fuga dalla guerra in Siria e in Iraq, oppure provenienti da Afghanistan e Pakistan, attraversarono i Balcani occidentali per raggiungere la Germania o la Svezia. «Il Regolamento Dublino III – spiega Gianfranco Schiavone, membro del consiglio direttivo di Asgi, associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, e presidente del Consorzio italiano di solidarietà – non prevede meccanismi di “sospensione” dello stesso, ma esclusivamente un meccanismo di allerta rapida e di gestione della crisi da parte dello Stato membro interessato attraverso un piano d’azione che sottopone alla Commissione europea. Si tratta di una procedura che potrebbe essere attivata in relazione alla situazione italiana, ma la considero di ben scarsa utilità».

Ampliando lo sguardo ai non richiedenti asilo, la normativa è differente: i Paesi europei, infatti, possono rilasciare permessi di soggiorno e di circolazione, a breve e lungo termine, ai cittadini di Paesi terzi, basandosi sulle proprie regole nazionali. Tuttavia, le linee guida fornite dall’Unione europea nel caso di un ingresso di migranti su larga scala al di fuori delle normative sulla protezione internazionale riducono gli spazi di manovra anche in questo senso. «Se uno Stato membro – si legge nel documento – decide di rilasciare permessi di soggiorno e ha la possibilità di scegliere tra vari tipi di permessi di soggiorno in base alla sua normativa nazionale, deve rilasciare permessi di soggiorno o permessi di soggiorno temporanei non equipollenti a un visto per soggiorno di breve durata se i migranti non soddisfano le condizioni per viaggiare nello spazio Schengen». Insomma, il messaggio rimane lo stesso: tenere i beneficiari del permesso all’interno dello spazio nazionale.

La proposta italiana ha natura emergenziale, e come tale va trattata, senza che venga considerata una soluzione a un fenomeno, quello delle migrazioni verso l’Europa, che è strutturale. «Le situazioni di emergenza – afferma Luigi Manconi, spiegando la dimensione dell’ipotesi avanzata – si affrontano con misure d’emergenza. Queste misure presentano sempre un limite, che diventa disastroso se quelle stesse misure non sono accompagnate da provvedimenti strutturali e di lungo periodo, ma i provvedimenti strutturali e di lungo periodo esigono prima o contemporaneamente l’assunzione di misure d’eccezione per situazioni d’eccezione».

«Se ci fosse la volontà politica – riprende Schiavone – si potrebbe ragionare non di una parziale sospensione dell’applicazione del Regolamento Dublino, ma un alleggerimento significativo del suo impatto attraverso un allargamento consistente della relocation». Secondo questa prospettiva, il Consiglio dell’Unione europea, su proposta della Commissione e con una decisione congiunta del Parlamento, potrebbe decidere di attivare una nuova relocation avente come stato beneficiario l’Italia, secondo parametri che, per Schiavone, potrebbero riguardare «per esempio i richiedenti protezione appartenenti a una nazionalità il cui tasso medio di accoglimento della domanda in prima istanza sia del 50%». «Una simile misura emergenziale – conclude – porterebbe a un forte ampliamento dell’attuale platea dei beneficiari e si configurerebbe come una sorta di “prova generale” del cambiamento del Regolamento Dublino verso il principio della suddivisione in quote-paese».

Tuttavia, a oggi non sono mai state portate avanti proposte simili, mentre quella portata avanti da Giro e Manconi è stata sostanzialmente isolata. «Quelle che finora sono retoriche della minaccia – conclude Manconi – , come quella di bloccare i porti, oppure di non dare all’Unione le risorse che, come Paese, dovremmo dare, si devono trasformare in atti concreti sui quali si può trovare poi un confronto, una mediazione, anche un compromesso. Allo stato attuale non c’è un piano sul quale il governo italiano stia conducendo una vera e propria trattativa con gli altri Stati, ma sta cercando semplicemente di persuadere a più miti consigli gli altri Paesi. È un’opera saggia, ma che certo guadagnerebbe in chiarezza e in concretezza se si indirizzasse su misure simili a quella che noi sollecitiamo».

Dall’inizio del 2017 sono oltre 93.000 le persone, provenienti principalmente dal Bangladesh e dall’Africa subsahariana, che hanno raggiunto le coste italiane dall’inizio dell’anno, segnando un incremento di circa il 17% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, mentre più di 2.200 sono quelle che non ce l’hanno fatta e hanno perso la vita nelle acque del Mediterraneo. Ancora di più, probabilmente, sono le vite perse nel deserto del Sahara, nel più totale silenzio, o “congelate” nei campi di detenzione in Libia, vittime di abusi sistematici e di condizioni inaccettabili per chiunque si trovi al di qua del mare e che preferisce, ancora una volta, voltarsi dall’altra parte.

Immagine: via Pixabay