erdogan

Istanbul, una marcia per molte identità

In questi giorni la città di Istanbul è al centro delle cronache, non soltanto perché manca poco al primo anniversario del fallito colpo di Stato che, nella notte tra il 15 e il 16 luglio 2016, segnò una nuova fase nella politica di tutta la Turchia. In attesa delle celebrazioni organizzate dal governo per ricordare la notte in cui la resistenza popolare impedì ai militari di rovesciare il presidente Recep Tayyip Erdoğan, per le strade del quartiere di Maltepe è stata l’opposizione a scendere in piazza.

Centinaia di migliaia di cittadini turchi, forse addirittura un milione secondo alcuni, hanno infatti sfilato in quella che è stata la più grande manifestazione politica di opposizione negli ultimi anni, una protesta nei confronti della forte stretta del governo contro gli oppositori politici.

La manifestazione è stata la tappa finale di una marcia di 450 km partita poco meno di un mese fa da Ankara, la capitale del Paese, ed è stata guidata da Kemal Kılıçdaroğlu, leader del Chp, il Partito Repubblicano del Popolo, la principale forza dell’opposizione nel Paese. «In realtà – racconta Carlo Pallard, storico e redattore della rivista East Journal – ha coinvolto anche gran parte di quei settori della politica e della società turca che tradizionalmente non fanno riferimento a questo partito». La protesta contro quella che viene ritenuta una profonda violazione della libertà e del principio di giustizia è stata in effetti in grado di catalizzare la partecipazione di movimenti che in condizioni normali stanno agli opposti, come la sinistra filocurda di Hdp e la destra nazionalista del Mhp. In realtà, a proposito di quest’ultimo settore politico il discorso è complesso: mentre i vertici del partito, rappresentati dal segretario Devlet Bahçeli, hanno deciso di supportare Erdogan in questa fase, alla luce di un’intesa piuttosto ampia con l’Akp, sembra che una componente significativa della base sociale che rappresenta si stia spostando verso una posizione differente. «Pare che il grosso della base del suo partito non abbia seguito Bahçeli – spiega Pallard – e la figura attorno a cui è possibile costruire questa nuova alternativa politica a destra è una donna, Meral Akşener, che ha espresso ufficialmente il suo supporto alla marcia di Kılıçdaroğlu e che sembra cercare di costruire una proposta politica più centrista rispetto al passato».

La speranza degli organizzatori, e in particolare del leader del Chp, è che questa manifestazione possa essere l’atto di nascita di un movimento politico trasversale in grado di opporsi al regime di Erdogan, anche se, come ha detto lo stesso Kılıçdaroğlu, per ora si tratta soltanto di un primo passo. «La difficoltà principale per Kılıçdaroğlu – avverte Pallard – è proprio quella di mettere d’accordo politicamente i settori della società, sicuramente massicci, che hanno sostenuto questa marcia. Dal un punto di vista delle ideologie politiche in senso stretto è difficile mettere tutti insieme se non in opposizione a Erdogan; lo si è visto anche in passato, perché per certi aspetti questi settori della società che si sono mobilitati ora sono molto simili a quelli che si sono visti al Gezi Park nel 2013, dove però poi non si arrivò a cambiamenti politici nel Paese. Rispetto a Gezi, tuttavia, c’è la differenza che oggi c’è almeno un partito, il Chp, e un leader politico, Kılıçdaroğlu, attorno a cui può nascere un’opposizione politica vera e propria, cosa che non c’era quattro anni fa».

La figura di Kılıçdaroğlu è sicuramente quella che politicamente esce più rafforzata da questa iniziativa, anche perché, oltre alle diverse posizioni politiche, il segretario del Chp sembra essere opposto a Erdogan anche per motivi caratteriali. Dal lato opposto, quello del presidente Erdogan e del suo partito, l’Akp, sono arrivate parole cariche di fastidio e risentimento nei confronti della marcia e della manifestazione, definite iniziative «fatte dai terroristi» e dai «sostenitori del colpo di Stato». Eppure, il governo ha scelto di non impedire la manifestazione, ma ha anzi deciso di fornire il massimo supporto possibile in termini di mantenimento dell’ordine pubblico, al punto che intorno ai manifestanti era presente un cordone di circa 15.000 agenti di polizia. «Il governo turco ha permesso e agevolato lo svolgimento di questa manifestazione – prosegue Carlo Pallard – perché non poteva fare altrimenti. Impedirla violentemente, o anche solo non proteggerla, lasciando che succedessero incidenti, avrebbe automaticamente dato ragione alle voci dell’opposizione e avrebbe dato voce alle ragioni della marcia; sarebbe stata un’ammissione che la marcia era giusta e che le rivendicazioni corrispondevano alla realtà». Secondo alcuni critici, inoltre, la scelta di Erdogan è dovuta anche alla possibilità di sminuire in questo modo le basi della protesta, affermando invece quanto la libertà di parola e opinione sia garantita. Per contro, i commenti del presidente turco tradiscono un fastidio, un’insofferenza, che per la prima volta mostra un po’ di crepe nel suo totale controllo del Paese. Dire che la manifestazione è una continuazione del golpe del 16 luglio 2016, aggiunge Pallard, «non è solo una caduta di stile, ma è un’affermazione molto grave e un grosso errore politico: è come dire che ci sono milioni di persone che supportavano il golpe». A giudicare da queste parole, «per la prima volta Erdogan è stato costretto ad agire preso alla sprovvista da un’iniziativa presa da altri».

Nell’anno trascorso dal fallito colpo di Stato, circa 50.000 persone sono state arrestate e 110.000 licenziate per effetto di decisioni presidenziali. La repressione portata avanti dal governo dell’Akp si è rivolta soprattutto sui seguaci di Fetullah Gülen, il predicatore che un tempo era alleato di Erdogan per estinguere il vecchio potere dei militari ma che oggi si trova in esilio ed è considerato il principale nemico, non solo politico, dell’attuale presidente.

In questi mesi, la stretta è andata molto oltre i presunti diretti responsabili, raggiungendo dissidenti di ogni tipo, inclusi giuristi e avvocati dell’opposizione, al punto che oggi la Turchia è il luogo nel mondo in cui più giornalisti si trovano in carcere e circa un quarto dei lavoratori del settore giustizia sono stati licenziati o arrestati. A distanza di 12 mesi, insomma, l’onda lunga di quei giorni non si è ancora esaurita. «La notte del tentato golpe – conclude Carlo Pallard – Erdogan si è sentito investito da una popolarità e da un consenso che non aveva mai avuto nessuno nella storia della Turchia, a parte Atatürk, ma probabilmente ha confuso il rifiuto popolare del colpo di Stato e la delle istituzioni con un supporto effettivo maggioritario alla sua persona e alla sua politica. Da quel momento in poi, paradossalmente, attraverso lo stato d’emergenza si è attuata una sospensione costituzionalmente legale di quelle che sono le principali garanzie costituzionali».

Immagine: di faruk, via Flickr