tortura

Anche in Italia la tortura è reato, ma solo a metà

Mercoledì 5 luglio la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva il disegno di legge che introduce nell’ordinamento italiano il reato di tortura. A favore del provvedimento si è espresso un numero davvero limitato di deputati, appena 198, mentre sono stati 35 i voti contrari e 104 gli astenuti, segno di un provvedimento che non è riuscito a raccogliere un ampio consenso in questi anni di difficile percorso parlamentare.

Il nuovo reato di tortura, previsto dagli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale, recita che «chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona».

La norma prevede inoltre che se il reato di tortura viene commesso da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle funzioni o da un incaricato di un pubblico servizio nella sua esecuzione, la pena vada da cinque a dodici anni di carcere. Se dalla tortura dovesse derivare la morte come conseguenza non voluta dal torturatore, la pena è di trent’anni, mentre se il torturatore dovesse causare volontariamente la morte, la pena prevista è l’ergastolo. Con l’articolo 613-ter viene invece punito il reato di istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura e si disciplinano immunità ed estradizione nei confronti di cittadini stranieri sottoposti a procedimenti o condannati per il reato di tortura.

La legge era in discussione dal luglio 2013, quando era arrivato in commissione Giustizia del Senato con la prima firma del senatore del Pd Luigi Manconi. Qui, per citare il suo primo firmatario, il testo è stato «completamente stravolto». «Le modifiche approvate – aveva commentato a maggio Manconi riferendosi al testo licenziato dal Senato – lasciano ampi spazi discrezionali perché, ad esempio, il singolo atto di violenza brutale di un pubblico ufficiale su un arrestato potrebbe non essere punito. E anche un’altra incongruenza: la norma prevede perché vi sia tortura un verificabile trauma psichico. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima?».

La legge è arrivata alla fine del suo percorso dopo essere stata per molto tempo bloccata in Commissione Giustizia al Senato, dove si è parlato a lungo proprio della natura singola o plurale degli atti di violenza. «Una vocale, una sola vocale – raccontava infatti Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, associazione che da anni si occupa dei diritti delle persone in carcere – cambia tutto, perché il punto maggiore di discussione è stato se la tortura dovesse consistere in una singola violenza fisica, psicologica, minacce, eccetera, o in violenze, al plurale. Secondo alcuni, era inaccettabile pensare a un torturatore che usasse una singola violenza, per quanto grave». Tuttavia, la definizione offerta dal testo delle Nazioni Unite era piuttosto chiara, e la parola violenza è utilizzata al singolare, «altrimenti – ricorda Susanna Marietti – se una squadra di agenti si mettesse d’accordo per infliggere un solo colpo a testa, a turno, allora potrebbe evitare l’accusa di tortura perché ognuno avrebbe usato una sola violenza, al singolare». Nel testo finale, in effetti, la definizione è rimasta al plurale, limitando quindi la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo.

Meno discusso, ma altrettanto decisivo nel far parlare le associazioni che si occupano di diritti umani di una legge nei fatti inapplicabile, è il fatto che il reato di tortura sia oggi un reato comune. Questo significa che la violazione sarà imputabile a chiunque, non solo al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio, come invece prescritto dalla Convenzione delle Nazioni Unite.

Proprio per questo, secondo l’associazione Antigone, «questa legge sarà difficilmente applicabile. Il limitare la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo e a circoscrivere in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura mentale è assurdo per chiunque abbia un minimo di conoscenza del fenomeno della tortura nel mondo contemporaneo». La natura di reato comune fa sì che i tempi di prescrizione siano ordinari, una scelta che è destinata a disinnescare in molti casi l’applicazione della norma.

Addirittura, secondo alcuni tra i giudici e i pubblici ministeri che avevano seguito quello che viene ritenuto il massimo esempio di tortura di massa avvenuto nel nostro Paese, e cioè il G8 di Genova nel 2001, con la legge attuale quella pagina della nostra storia sarebbe comunque rimasta impunita.

È strano che sia così, perché il dibattito sul reato di tortura nel nostro Paese era ripartito seriamente proprio quando, nell’aprile del 2015, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo aveva condannato l’Italia per la condotta tenuta dalle forze dell’ordine durante l’irruzione alla scuola Diaz al G8 di Genova del 2001, dove secondo i giudici le azioni della polizia ebbero finalità punitive, con una vera e propria rappresaglia e la volontà di umiliare e far soffrire, fisicamente e moralmente, le vittime. La Corte parlò esplicitamente di tortura e invitò l’Italia a dotarsi di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili. La stessa Corte ha poi nuovamente condannato il nostro Paese il 22 giugno 2017, sempre per i fatti delle scuole Diaz e Pascoli avvenuti tra il 21 e il 22 luglio del 2001.

La legge, che secondo Amnesty Italia è una brutta norma ma «rappresenta un piccolissimo passo avanti», non ha raccolto soltanto le critiche delle realtà sociali del nostro Paese, ma anche quelle del Commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, che in una lettera ai presidenti di Camera e Senato ha evidenziato numerose contraddizioni nel testo. Soprattutto, si parla della profonda difformità di questa legge rispetto alla convenzione Onu sottoscritta dall’Italia nel 1988, e questo mette sin da subito in dubbio la legittimità costituzionale della nuova norma con riferimento all’articolo 117 della nostra Carta, per il quale le convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia vincolano il nostro legislatore. In particolare, la convenzione delle Nazioni unite parla di “ogni violenza”, mentre nella legge si era deciso di utilizzare il termine “violenze”, poi diventato “reiterate violenze” e infine “più condotte”, che può arrivare a distribuire i trattamenti inumani o degradanti lungo un ampio periodo di tempo.

«Come organizzazioni della società civile – dichiara Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone – il nostro ruolo è far sì che questa brutta legge venga applicata. Non saremo noi quelli che di fronte a una legge scritta male ci scoraggeremo e rinunceremo alla sua applicazione. Anzi, noi lotteremo perché nei meandri di una brutta legge possano essere puniti i torturatori, sapendo che sarà più difficile da applicare. Lavoreremo quindi per farla applicare e per farla migliorare, lavorando anche in sede giurisdizionale per rimuovere le parti che sono state scritte in modo tale da rendere questa norma inapplicabile».

Immagine: di Thomas Hawk, via Flickr