1200px-piazza_della_loggia

La memoria di una città

A Brescia ci sono molti bambini immigrati, e tutti loro conoscono alcune giornate particolari: il 27 gennaio, il 25 aprile, il 1° maggio e il 28 maggio, oltre a Natale e Pasqua. La memoria collettiva viene trasmessa di generazione in generazione e, mentre in alcune famiglie italiane la strage di piazza della Logga (sui cui autori la Cassazione in giugno, dopo 43 anni, ha emesso la sentenza definitiva di condanna) viene considerata qualcosa che riguardava i comunisti e gli operai, come la Shoah riguardava «altri», nelle famiglie straniere non ci sono filtri di tipo sociale e politico e c’è un grande rispetto per ciò che viene dalla scuola. Chiedete a qualunque ragazzino immigrato: loro sanno, sono partecipi di questa memoria cittadina, sanno della piazza dove hanno messo la bomba.

È una piazza centrale, dove ha sede il Municipio, priva di alcun simbolo religioso. Una piazza con tanto spazio per i pedoni, dove da sempre si sono tenute tutte le manifestazioni civili, dove ciascuno e ciascuna di noi non può passare senza volgere il pensiero a quel giorno, a chi è morto, a chi è stato ferito, a chi si è salvato. Aspettare 43 anni per avere giustizia è un tempo infinito. Ci sono persone che hanno atteso inutilmente e non ci sono più, altre che sarebbero state condannate per questa strage e non ci sono più neanche loro. Se confrontiamo i morti di piazza della Loggia, pochi rispetto alle vittime delle stragi di oggi, delle guerre, la necessità di giungere a una sentenza potrebbe sembrare quasi un accanimento. Eppure chi può definire che peso ha la sofferenza, che tempi ha l’elaborazione di un lutto, quanto tempo ci vuole per voltare pagina? Da 43 anni ci sono persone che si sono fatte carico della memoria, di cercare la verità: in particolare Manlio Milani, presidente dell’associazione Casa della Memoria, che ha saputo unire la ricerca della verità per Brescia a quella di tutte le stragi, senza distinzione fra stragi nere e stragi rosse, con rispetto per le vittime, per i loro familiari, per la ricerca della giustizia che, sola può lenire la sofferenza di una morte così crudele.

Il 28 maggio 1974 mia madre e io eravamo in piazza, a manifestare, lontane l’una dall’altra, entrambe siamo state sfiorate dalla morte. Infatti mamma, fortemente impegnata nel sindacato scuola e grande amica di tutti gli insegnanti morti quel giorno, giunse tardi per un contrattempo e non si unì ai suoi colleghi, amici e compagni di lotta. Era dall’altro lato della piazza al momento dello scoppio. Io, quattordicenne attiva nella sinistra extraparlamentare, respiravo l’aria tesa di quei giorni, in cui tutti si aspettavano un attentato a Brescia, e avevo voluto a ogni costo partecipare a quella grande manifestazione antifascista, sotto una pioggia battente, nonostante mamma mi avesse chiesto di non andare, o di aspettarla e andare insieme a lei. Ero vicinissima alla luogo dell’esplosione, sotto il portico, ma un compagno, due minuti prima dell’esplosione, mi aveva convinto a ad andare al centro della piazza a restituire le bandiere. La bomba esplose alle nostre spalle, un rumore sordo, attutito dai corpi, che avevo inizialmente scambiato per l’ennesimo tuono… Le urla, l’annuncio da parte dell’oratore, e la consapevolezza che quel che temevamo era accaduto: e mamma dov’è? E i miei amici, i miei compagni, dove sono? Camminavamo tutti sotto la pioggia, scivolando sul marmo, riconoscendoci e abbracciandoci, chiedendo a tutti dei nostri cari, continuando a girare per la piazza finché non li incontravamo.

Dopo un tempo infinito ritrovo mamma: lacrime di sollievo, dopo tanta ansia e disperazione, e ritorno a casa con un grande gruppo per dare un pasto a chi non poteva tornare a casa. Tutti i trasporti pubblici infatti erano sospesi, e così ci siamo trovati, assiepati in cucina, con in mano un piatto di pasta con sugo e lacrime, condividendo la nostra esperienza, la paura, il sollievo e l’ansia di sapere chi fossero i «caduti di piazza della Loggia», attoniti a guardare un telegiornale che diceva poco, troppo poco sulla nostra tragedia collettiva.

Eppure quella condivisione ha creato un legame durato decenni, un legame speciale, fra quelli che c’erano, che erano là insieme. Nel pomeriggio abbiamo scoperto che la maggior parte dei caduti erano amici e compagni, ci siamo rese conto di quanto da vicino ci avesse sfiorato la morte, che ci risparmiò non perché fossimo migliori di loro… Così era scritto, non era il nostro momento: avevamo ancora molto da fare qua, con un impegno di testimonianza e lotta per la giustizia, non lasciandoci intimorire dall’allarmismo su luoghi o situazioni pericolose. Credo che questo mi abbia segnata, ci abbia segnate, nel corso delle nostre esistenze di impegno sociale, politico ed educativo, e nel nostro cammino di fede.

Anche quest’anno, il 28 maggio, prima della sentenza, con la mamma siamo andate in piazza e, nonostante la malattia le stia minando la memoria e inizialmente non ricordasse perché fossimo là, stare nella piazza, vedere i fiori, le bandiere, incontrare persone che la riconoscevano e la salutavano, l’ha riportata al 1974 e a tutti gli anniversari che sono seguiti. Mi ha guardata e ha detto con il suo sguardo luminoso: «io qua c’ero! Noi c’eravamo!». Anna Achmatova, eccelsa poetessa di russa, che condivise con molte altre mesi di passione sotto le carceri di Leningrado dove erano detenuti mariti e figli, dedicò loro il poema Requiem. Nell’epilogo, descrivendo le sue compagne di sventura, scrive: «… e colei che, scrollando la bella testa,/ disse “qui vengo, come a casa”…».

Di Vitold MuratovOpera propria, CC BY-SA 3.0, Collegamento