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Ius soli, una misura di civiltà

In questi giorni tra molte polemiche si discute di una legge con la quale si intende riconoscere la cittadinanza ai giovani nati in Italia che abbiano almeno un genitore residente da lungo tempo nel nostro paese o che abbiano frequentato almeno un ciclo di studi presso le scuole italiane. Secondo una formula giuridica utilizzata in vari paesi del mondo è l’applicazione dello ius soli, del diritto alla cittadinanza determinati dalla residenza in un dato territorio. Una opzione molto diversa e contrapposta allo ius sanguinis che, invece riconosce la cittadinanza soltanto sulla base del «sangue» ovvero dalla discendenza da genitori italiani.

In realtà quello italiano è uno ius soli fortemente temperato perché non prevede l’automatismo della cittadinanza per chiunque sia nato in Italia ma solo a certe condizioni come, ad esempio, accade in Germania.

Grandi paesi come gli Stati Uniti hanno adottato, invece, lo ius soli puro: è cittadino americano chiunque nasca sul suolo degli Stati Uniti, persino se figlio di immigrati non regolari.

Secondo varie stime, se approvata questa legge garantirebbe la cittadinanza a circa 850.00 giovani: ragazzi che conosciamo perché hanno frequentato la scuola insieme ai nostri figli, che studiano nelle nostre università, parlano la nostra lingua con gli accenti regionali che ci caratterizzano, che tifano azzurro e cantano convintamente «Fratelli d’Italia…» anche se hanno la pelle nera o si chiamano Abdul o Svetlana. Ragazze e ragazzi che si sentono italiani a tutti gli effetti.

Come spesso accade quando si parla di immigrazione, il dibattito pubblico sullo ius soli ha assunto toni esasperati. Nell’aula del Senato si è assistito a una vera e propria gazzarra in cui i parlamentari di alcune forze politiche hanno fatto a gara per conquistare una ripresa televisiva mentre provavano a occupare gli scranni del governo e a interrompere i lavori parlamentari. Per qualche voto in più si fa questo ed altro, e non è una novità.

Non sappiamo dire, però, quanti di questi parlamentari e delle folle che li hanno applauditi abbiano letto i recenti rapporti sul declino demografico nazionale che registra un calo delle nascite che nel 2016 ha sfiorato le 500.000 unità. Non è una buona notizia: un paese che invecchia e in cui i nuovi nati non compensano i decessi, è un paese in declino. Riconoscere la cittadinanza a ragazzi nati o cresciuti in Italia significa ridare ossigeno demografico al paese ed è una misura, oltre che di civiltà, di razionalità sociale e economica.

Le chiese evangeliche sono da anni impegnate a sostenere il diritto dei «nuovi italiani». Lo fanno aderendo a argomenti che potremmo definire giuridici e sociologici, ma introducendo anche un altro tema che è quello della dignità di chi vive con noi e in mezzo a noi. Non sono solo «lavoratori» e sono sempre meno «stranieri» perché la loro casa è l’Italia, ed è in questa casa che concepiscono i loro sogni e i loro progetti. E sanno che è questa la casa che devono proteggere e consolidare. Sono cittadini, nuovi italiani che acquisendo la cittadinanza formale entrano in un patto civile che contempla diritti e doveri. Non dovremmo averne paura, anzi dovremmo esserne orgogliosi e rassicurati.

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