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Da Damasco a Homs per portare la solidarietà delle chiese protestanti italiane

DAMASCO/HOMS — È un venerdì di ramadan. Le botteghe sono chiuse e le serrande sono state tutte ridipinte con i colori della bandiera siriana: rosso, bianco e nero, il tricolore adottato nel 1980. L’aria è calda, torrida, pervasa dal profumo di pane, appena sfornato. Il centro storico di Ash-Sham, la Damasco vecchia è presidiata dai check-point dei militari. C’è una calma apparente, di sospensione, un’atmosfera quasi manipolata, a metà tra la normalità e il baratro.

Ad accogliere la delegazione della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) – Mediterranean Hope recatasi a Damasco e Homs per una missione di approfondimento della situazione in Siria e per portare un messaggio di solidarietà e di fratellanza alle Chiese presenti su tutto il territorio siriano, ci sono Magd e Louay, responsabili dell’organizzazione protestante Charitable Society for Sustainable Development. L’associazione si occupa principalmente di distribuzione di aiuti umanitari e di assistenza alle donne vedove. Davanti a una tazza di chay, Magd spiega quali sono le urgenze della popolazione siriana: «Cibo e medicine. I prezzi del cibo sono moltiplicati mentre gli stipendi sono rimasti gli stessi», e aggiunge «Siamo preoccupati per le nuove generazioni, cresciute in un clima di odio e violenza». Con loro non si parla di politica, né del futuro ma solo del passato, in maniera nostalgica. «È difficile immaginare il futuro adesso, la condizione è migliorata ma speriamo che la Siria possa tornare come un tempo», ripetono melanconici.

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Il programma è intenso e le visite sono numerose. Il primo incontro avviene con i medici dell’ospedale francese Saint-Louis. «È difficile importare medicinali, attrezzature sanitarie, pertanto si ricorre ai canali illegali, ma spesso i farmaci sono poco efficaci». Inoltre sono ritornate malattie «scomparse», come il colera, la tubercolosi, la poliomielite, proprio per l’assenza di vaccini nel paese. «Anche l’embargo uccide, non solo le armi», ribadiscono. Questa frase sarà ripetuta come un mantra nel corso dei numerosi colloqui avuti con ospedali, associazioni di volontariato e chiese.

A metà strada, tra Damasco e Homs, nel villaggio cristiano di Sadad, un gruppo di donne e uomini, aspetta la delegazione della Fcei. Tra il 2012 e il 2013, il villaggio è stato attaccato e assediato dai miliziani di Jabat al Nusra che hanno incendiato e distrutto le case dei cristiani. Oggi, la maggior parte della cittadinanza è composta da famiglie sfollate da Homs: quasi tutti i giovani sono partiti all’estero e quelli rimasti sono dovuti entrare nell’esercito. Restano le donne, gli anziani e i «figli unici», esonerati dalla leva obbligatoria.

«Se noi non facciamo niente, l’unica soluzione è andarcene», afferma Elias Shalouha, uno dei giovani che ha avviato un progetto di micro-imprenditoria artigianale, «ma abbiamo bisogno di fondi economici, di materiali e della vostra solidarietà per continuare a rimanere in questa terra». È questa la maggior preoccupazione dei Vescovi e dei sacerdoti, incontrati durante la missione: permettere alle comunità cristiane di restare in Siria. Ce lo dice, senza troppi giri di parole, il rev. Mofid Karayili, pastore della Chiesa presbiteriana di Homs: «Se vogliamo che i cristiani restino in Siria, dobbiamo dar loro del pane e aiutarli in progetti di micro imprenditoria». Il giovane pastore è uno di quelli che ha scelto di restare laddove tutto sembra impossibile da ricostruire e rappacificare: «Dobbiamo lavorare con le comunità, ma sappiamo che saranno necessarie due o tre generazioni prima che si riesca a ristabilire un clima di pacifica convivenza», ripete a margine dell’incontro.

Di altro avviso è il Vescovo di Homs, Hama e Tartous, Selwanos Boutros Alnemeh. A lui hanno ucciso un fratello, fatto saltare in aria con una bomba nella Chiesa siriaca-ortodossa Um al-Zennar di Homs, e più di trecento fedeli della sua parrocchia. «Lavoriamo tanto per portare speranza alla nostra gente ma come possiamo ritornare a vivere insieme come in passato? Erano i nostri vicini e ci hanno ammazzato. Davamo loro il cibo e ci hanno pugnalato. Erano come fratelli, come facciamo ad accettarli di nuovo? E se sei giovane, o migri, o muori», dice con un tono di rabbia e rassegnazione. La sua chiesa, nel cuore di Homs è stata bombardata e bruciata. Lentamente la stanno ricostruendo. Davanti alla chiesa un cartello con la foto di Bashar al Assad e la scritta «Insieme la ricostruiremo ancora più bella». Tutto intorno è solo macerie, grigiore, distruzione. Interi quartieri sono stati rasi al suolo e la popolazione è passata da 1 milione di abitanti a 400.000 mila persone. Pochi i civili nelle strade; solo in alcuni quartieri, a maggioranza alawita, tutto appare normale ma nel resto della città i militari governativi sono ovunque e presidiano ogni singolo accesso, controllando chi entra e chi esce.

In una stanza della Chiesa incontriamo un gruppo di donne impegnate in attività di cucito. Sorridono, scherzano e chiedono di fare una foto con la delegazione della Fcei. La maggior parte di loro ha perso un famigliare, un figlio o un marito. Insieme s’incontrano e creano diversi modelli di borse e portafogli che saranno venduti, affinché le famiglie possano avere un reddito. «È un modo di stare insieme e alleviare le sofferenze del conflitto», afferma Alnemeh. Nelle prossime settimane queste donne organizzeranno dei mercati locali per vendere i loro prodotti artigianali e con il ricavato finanzieranno i bisogni della comunità. «Abbiamo bisogno di pace, di futuro per la nostra gente e del vostro aiuto», conclude il vescovo.

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Immagini di Sara Manisera