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Bosnia ed Erzegovina, gli studenti contro la segregazione a scuola

Martedì 27 giugno la strage di Srebrenica, che vide il massacro di oltre 8.000 persone tra il 6 e il 25 luglio del 1995, è tornata sui giornali portando con sé una narrazione della Bosnia ed Erzegovina che, ancora oggi, considera il Paese come una realtà irriducibilmente divisa, quasi che la separazione etnica dei suoi cittadini sia incisa nel patrimonio genetico di quell’area dei Balcani occidentali.

Eppure, ci sono storie che aiutano a smentire questa lettura e questo approccio “etnico” alla regione. Una di queste arriva dalla cittadina di Jajce, nel cantone della Bosnia centrale, una delle suddivisioni amministrative in cui è divisa la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, l’area a maggioranza croato-musulmana del Paese. Proprio grazie a quanto accaduto qui, la scorsa settimana il governo cantonale ha deciso di cancellare il piano, annunciato a giugno 2016, di costruire una nuova scuola secondo la logica dvije škole pod jednim krovom, “due scuole sotto un tetto”, separate quindi su base etnica tra croati e bosniaci.

«Tutto era cominciato esattamente un anno fa – racconta Lidija Pisker, ricercatrice bosniaca e collaboratrice di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa – e partiva dalle presunte lamentele dei genitori dei ragazzi bosniaci, che secondo il ministero dell’Istruzione del cantone volevano che i loro figli potessero avere la possibilità di studiare in lingua bosniaca e di seguire un percorso di studi bosniaco. Oggi a Jajce non è possibile, perché in entrambe le scuole secondarie della città le lezioni seguono un curriculum croato e si utilizzano libri di testo che provengono dalla Croazia». Partendo da questi presupposti, il governo del cantone della Bosnia centrale aveva deciso di edificare una nuova scuola divisa in due. «Contro ogni previsione – prosegue Pisker – alcuni studenti di questa scuola hanno deciso di opporsi a questa decisione, hanno cominciato a protestare nel giugno dello scorso anno e in questi 12 mesi hanno ottenuto un grande supporto dalla comunità internazionale, dalla gente del posto, dai mezzi d’informazione e dalle celebrità dei Balcani, infatti il ministro dell’Istruzione alcuni giorni fa ha dichiarato che alla fine non si farà nulla».

La pratica di separare gli studenti nello stesso edificio per seguire curricula bosniaci, serbi o croati era stata introdotta in seguito al conflitto degli anni Novanta che aveva lacerato il Paese e portato alla nascita di entità suddivise e separate, in quella che alcuni storici chiamano “guerra nella guerra”. Secondo questo sistema, sotto il tetto dello stesso edificio scolastico gli alunni delle scuole elementari utilizzano due distinte ali della scuola, una per i bosgnacchi e l’altra per i croati, con programmi del tutto differenti: i bosgnacchi studiano in lingua bosniaca e apprendono la storia storia e la geografia secondo una lettura “bosniaca”, mentre i croati utilizzano libri pensati, scritti e stampati in Croazia, con programmi differenti e una propria variante linguistica.

Nonostante una sentenza della Corte Costituzionale federale della Bosnia ed Erzegovina abbia giudicato il modello “due scuole sotto un tetto” discriminatorio e quindi da evitare, la sua esistenza non sembra essere in dubbio, anche perché il partito nazionalista croato Hdz è finora riuscito a mantenerlo in piedi al di là di ogni condanna da parte della comunità internazionale.

Secondo i critici di questo modello, compresi gli studenti che stanno protestando, la segregazione nelle scuole continua a segnare e rovinare la vita della popolazione bosniaca, basandosi su un principio nazionalista indifendibile come quello secondo cui gli studenti di un particolare gruppo etnico dovrebbero studiare nella loro “lingua nativa”. Oltretutto, la nozione secondo cui il serbo, il bosniaco e il croato sono lingue differenti è stata duramente smontata lo scorso marzo da un’alleanza di linguisti provenienti da tutta la cosiddetta jugosfera.

«Il caso di Jajce – prosegue Lidija Pisker – è davvero sorprendente, perché gli studenti hanno dato vita alle proteste e hanno tenuto duro fino a questo punto, non hanno ceduto per un anno intero e ora hanno vinto. Il problema è che apparentemente la politica ancora oggi, nel 2017, sta sfruttando la retorica della guerra, e i politici si appoggiano ancora alla retorica etnica che permette loro di rimanere dove sono, continuando ad approfittare della miseria della popolazione bosniaca. Spero che tra un po’ di anni questi giovani che stanno protestando, una volta finita l’università possano prendere il posto dei politici che ora stanno guidando il Paese».

La vittoria conseguita dagli studenti a Jajce non può tuttavia essere considerata un punto di arrivo, perché sono ancora molti i segnali che vanno nella direzione opposta, quella della distanza e della separazione. All’inizio del mese di giugno, per esempio, Milorad Dodik, il presidente della Republika Srpska, a maggioranza serba, aveva ordinato che le scuole dell’entità amministrativa rimuovessero dai libri di testo ogni riferimento al genocidio di Srebrenica, che in quella parte del Paese è una ferita ancora aperta. Questo è soltanto un esempio di come i nazionalisti continuino a utilizzare l’educazione come uno strumento di divisione a proprio vantaggio, ma la vittoria degli studenti di Jajce mostra come i bosniaci più giovani stiano ormai rifiutando le politiche che hanno frenato il loro Paese per più di vent’anni.

«Incontrando molti giovani in tutta la Bosnia – avverte Pisker – so che sono tanti quelli che vogliono rimanere in Bosnia ma vorrebbero potersi costruire un futuro migliore, avere un lavoro, avere accesso a università di qualità».

Secondo i difensori del sistema, però, il modello è necessario perché preserva l’identità etnica e previene la dominazione di un gruppo etnico sugli altri. «Gli studenti – prosegue Lidija Pisker – pensano che ci siano altre possibilità di rispettare il diritto umano all’educazione nella propria lingua madre, che non sia necessario creare un nuovo edificio e separare gli studenti». In effetti, guardando alla situazione attuale, negli anni sono state adottate soluzioni differenti: in alcune parti della Bosnia ci sono scuole in cui le persone di nazionalità diversa vanno a scuola insieme, ma con lezioni separate per alcune materie, come la storia o la geografia; in altre aree, invece, le lezioni sono uniche per tutti. «Gli studenti, insomma, hanno voluto dire di smetterla di continuare a dividerli, perché ci sono altre opzioni».

Passato questo successo, gli studenti promettono di non fermarsi qui, ma di continuare la loro lotta contro la segregazione nelle altre 57 scuole gestite con questo sistema nei cantoni della Bosnia Centrale e della Erzegovina-Neretva. Tuttavia, secondo Lidija Pisker «è difficile che quanto successo a Jajce possa avvenire in altre parti del Paese nelle quali ci sono scuole di questo tipo, perché spesso le divisioni sono più profonde. In alcune piccole città della Bosnia centrale gli studenti sono divisi a partire dalle scuole elementari fino alla scuola secondaria, e questa è l’unica realtà che conoscono. Jajce è un caso diverso, perché ci sono scuole di questo tipo nel ciclo delle elementari, ma non nella scuola secondaria». Le proteste, in effetti, sono partite da qui, da scuole in cui gli studenti vanno insieme. «Questa generazione di ragazzi e ragazze tra i 14 e 18 anni che ora sta protestando – conclude Pisker – sa cosa vuol dire stare insieme, hanno un’esperienza di questo tipo. In altre città gli studenti sono invece divisi in tutto e per tutto, hanno addirittura bagni differenti, non si vedono mai, anche se condividono lo stesso edificio. Credo che incoraggiare gli studenti delle altre città a fare lo stesso richiederà uno sforzo molto più grande».

Immagine: By Darij & Ana – JajceUploaded by Smooth_O, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=9975117