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Raqqa, una città senza un domani

Da alcuni mesi si legge e si sente parlare di “assedio finale” alla città di Raqqa, in Siria, considerata la “capitale” del Daesh, il gruppo Stato islamico, che l’aveva occupata nel 2014.

Una retorica, quella che definisce “finale” un’operazione militare, che ritorna di conflitto in conflitto trasformando in risolutive, e apparentemente brevi, esperienze che per i civili bloccati nelle città sono interminabili e che si portano dietro una lunga coda fatta di traumi e di segni a volte indelebili, come testimoniano le storie individuali e collettive di chi riesce a raggiungere luoghi sicuri, nei quali provare a ricostruire la propria vita.

La stessa possibilità di fuggire da un luogo sotto assedio non è scontata, esattamente come quella di lasciare il proprio Paese per cercare rifugio in una terra sicura. Mentre la narrazione ci parla di un’avanzata continua delle Syrian Democratic Forces, sostenute dagli Stati Uniti e di un cerchio che si stringe sempre più sui miliziani di Daesh, le persone che vivono sotto assedio cercano di raggiungere i campi per sfollati allestiti ai margini della città. Inoltre, le ultime testimonianze raccontano di bombardamenti al fosforo bianco, una sostanza tossica per ingestione e inalazione, che provoca necrosi ossea e che brucia se esposto all’aria a 40º C. All’interno di questo cerchio e sotto questi bombardamenti rimangono i civili, che spesso non possono neppure comunicare con un mondo esterno che è lontano come non mai anche se al centro di riflettori che spesso accecano anziché illuminare.

Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia, racconta che «si parla sempre di “assedi finali”, come se l’assedio finale fosse quello di cui bisogna parlare, come se l’assedio fosse qualcosa che dura pochi giorni o al limite poche settimane. Ogni volta si accendono i riflettori quando gli assedi giungono al loro apice».

Che cosa non funziona in questa narrazione?

«Non guardiamo al fatto che proprio in Siria e in Iraq, così come in Yemen e in generale nelle zone del mondo in cui ci sono conflitti, gli assedi durano da anni e le vittime sono sempre le stesse. Tra questi, le prime sono i bambini, che spesso sono intrappolati in queste aree; è sempre più difficile poterli raccontare nella loro quotidianità, ma li si ritrova soltanto quando si usa il termine “finale”, come se fosse nel finale che noi dobbiamo intervenire, quando in realtà la catastrofe è ormai inevitabile».

Le parole utilizzate sono le stesse, indipendentemente dal luogo. Raqqa come Mosul, Mosul come Aleppo e via via in una catena senza fine. Ma al di là della storia raccontata, che cosa succede a Raqqa?

«È una situazione emblematica. In questa piccola enclave, controllata dal Daesh, è in corso un’offensiva da parte delle forze curde siriane con il sostegno degli Stati Uniti, e si stima che ci siano 40.000 bambini, cioè come un medio comune italiano, intrappolati nella città in condizioni estremamente pericolose. Inoltre abbiamo notizie certe di almeno 25 bambini uccisi in città e in generale ci sono minori al centro del fuoco incrociato che si sviluppa mentre si attaccano ospedali e scuole. La gente cerca di fuggire dalla città ma loro, durante la ritirata del Daesh, sono esposti a moltissimi rischi. Le persone intrappolate sono oltre 100.000, avevamo già segnalato la cosa più di un mese fa nel silenzio globale e di fatto abbiamo acquisito un altro numero importante, 80.000 bambini che si sono spostati e che a causa di combattimenti vivono in rifugi di fortuna, in campi per sfollati nei dintorni della città, dov’è veramente difficile portare aiuti a causa delle più che precarie condizioni di sicurezza».

Per gli operatori delle organizzazioni umanitarie, è possibile raccogliere testimonianze dirette da luoghi come Raqqa?

«Noi abbiamo operatori che rischiano la vita quotidianamente in alcune di queste zone, anche se non è facile. Avevamo testimonianze dirette anche da Aleppo est e le abbiamo da Raqqa, ma sempre in realtà da luoghi che stanno leggermente fuori dalle città, perché è impossibile entrare dentro. Quante volte abbiamo chiesto di entrare ad Aleppo negli anni scorsi, non soltanto la scorsa estate, quando è finita sotto i riflettori, per sincerarci delle condizioni dei bambini ad Aleppo est. Non è mai facile e spesso i nostri interventi seguono quelli delle forze della coalizioni che riescono ad entrare, spesso le testimonianze sono postume, spesso ci arrivano per mano o per mezzo proprio degli sfollati che riescono ad uscire. È chiaro che quello che riusciamo ad avere da Raqqa oggi o da altre città è la testimonianza di alcuni nostri operatori che sono sul campo, quei pochi mezzi mobili di aiuto che abbiamo e che testimoniano le cose orrende che avvengono in queste ore».

Di che esperienze parliamo?

«Abbiamo testimonianze da Raqqa di bambini usati come scudi umani, trattenuti nelle scuole, negli ospedali, alla mercè delle bombe che arrivano, ma anche bambini che per strada piangono e urlano perché hanno perso il papà e la mamma e li cercano disperatamente. Abbiamo evidenze di bambini mutilati perché durante il cammino si sono seminate molte bombe, oltre alle mine antiuomo, e questo porta menomazioni importanti nei confronti di questi bambini. Abbiamo evidenze di storie di enormi traumi psicologici che colpiscono gran parte di questi bimbi inermi. Insomma, queste sono alcune tra le cose che più riscontriamo in questo momento a Raqqa, esattamente come a Mosul, in Iraq: il Daesh in ritirata compie uccisioni di massa, commette crimini senza precedenti tra cui appunto anche violenze sessuali a danni di donne e bambini, il Daesh in ritirata purtroppo utilizza i bambini come scudi umani o comunque li espone ad atrocità tremende».

Parlare di “assedio finale” imporrebbe una domanda che spesso viene invece evitata: finita l’operazione militare, quali possibilità di ricominciare ci sono per chi ha lasciato queste città e per chi ci è rimasto intrappolato dentro per mesi?

«Parliamo di un conflitto che dura da 6 anni e che, oltre a chi ha lasciato il Paese, vede persone sfollate in campi profughi di fortuna che stanno diventando permanenti. Sono oltre 5 milioni e mezzo di persone, che ci fanno capire che la Siria è un disastro senza precedenti. Ci sono persone rientrate ad Aleppo, che è stata liberata non si sa da cosa, visto che sia l’oppressore sia il liberatore sono criminali di guerra. La speranza è che la Siria trovi pace, ma anche se se ne parla sempre meno la pace sembra lontana, nel frattempo ci sono altre città sotto assedio e un eventuale ritorno dei civili nelle zone libere sarà un processo lungo, anche perché la Siria mi sembra davvero ancora lontana dal poter veramente ritornare a ospitare una popolazione che non ha voluto questa guerra».

Anche questo ci riporta a una dimensione umana, che va oltre i numeri. Perché lo si dimentica così facilmente?

«È opportuno pensare alla questione in modo più ampio: quando viviamo o parliamo, per esempio, del fenomeno migratorio, assistiamo a dichiarazioni elettorali, si usano i migranti come un grimaldello politico. Ecco, spesso la narrazione parla di numeri, parla dell’indisponibilità all’accoglienza, quando i numeri in realtà sono irrisori rispetto al numero degli abitanti, e in questo modo semina e genera paura e pregiudizio e non racconta, e quando prova a fare una narrazione, in realtà è finta. Non si raccontano le storie, non si racconta la geografia, che anche se abbiamo smesso di studiarla alle elementari e alle medie è importante, perché ci aiuta a comprendere il perché di certi movimenti o perché certi confini in Africa e in Asia siano stati fatti col righello. Non ci raccontano i nomi e i cognomi, perché se noi non diamo i nomi e i cognomi a queste persone e le lasciamo stare lì come numeri e basta, è chiaro che non li conosciamo, e quando non li conosciamo abbiamo pregiudizi e paura. Questo è il grande errore di questo tempo, che purtroppo scatena pregiudizi e false verità sull’entità di fenomeni che sono importanti ma che vanno soprattutto gestiti, non demonizzati, perché in certi casi, come per esempio nel caso dei minori non accompagnati, possono rappresentare addirittura una risorsa».

Immagine: via Flickr