3573461756_912b926295_o

Il caso Riina: uno scontro tra diritto e vendetta?

Lunedì 5 giugno la Corte di Cassazione ha pubblicato una sentenza che riguarda Salvatore Riina, detto “Totò”, uno tra i più importanti boss di Cosa nostra, la mafia siciliana, che si trova in carcere dal 1993 e condannato a numerosi ergastoli. Lo scorso anno l’avvocato di Riina aveva presentato un’istanza al tribunale di sorveglianza di Bologna in cui si chiedeva la sospensione della pena o almeno gli arresti domiciliari perché il suo assistito, che oggi ha 86 anni, è malato. Il tribunale di Bologna non aveva accolto la richiesta, ma la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza numero 27.766, ha deciso di annullare e rinviare l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Bologna. «Mi sembra che non sia avvenuto niente di particolarmente eccezionale», afferma Francesco Sciotto della Commissione carceri della Fcei. «I legali di Riina avevano chiesto al tribunale di sorveglianza di Bologna di considerare il fatto che le condizioni di salute del loro assistito non potessero essere trattate nel regime del 41bis, il cosiddetto “carcere duro”. Il tribunale di Bologna aveva riconosciuto la malattia di Riina, ma aveva anche deciso che dovesse rimanere all’interno di quel regime. Ecco, la Cassazione ha ribadito al tribunale di Bologna il suo diritto di prendere la decisione, ma ha chiesto di motivarla meglio. Secondo la Cassazione, infatti, se si ammette che una persona è malata, allora non si può tout court sostenere che può rimanere nel regime di 41bis senza fornire una valida motivazione».

Eppure, sin dalle prime ore successive alla sentenza, l’opinione pubblica ha cominciato a schierarsi in modo netto a favore della decisione o in modo contrario, discutendo del dovere o meno da parte dello Stato di riconoscere un diritto a chi rappresenta un simbolo della negazione e del fallimento dello Stato stesso.

Quali meccanismi ci hanno portato a questo dibattito?

«Ci sono secondo me troppe sovrapposizioni in una discussione che è partita, come spesso avviene, sui social network. Da un lato c’è chi ha dato sfogo alle proprie parole di vendetta, definendo Riina “una belva”, un mafioso che ha ucciso un sacco di persone e che quindi deve morire in carcere tra mille sofferenze. Qualcuno invece chiede di fare molta attenzione a liberare una persona che può ancora essere pericolosa, quanto meno farla uscire dal carcere. Ecco, qui c’è la sovrapposizione forse più difficile da comprendere, ma anch’essa sbagliata: quella tra carcere e pena. Se una persona ha preso l’ergastolo significa che la sua vita, tutta la sua vita, da quel momento in poi sarà sottoposta al controllo dello Stato, ma non vuol dire che la pena debba per forza essere la detenzione in carcere. Chi è agli arresti domiciliari o in detenzione domiciliare sta scontando una pena, non che, siccome è a casa, la sua pena è finita».

Ci sono soltanto distorsioni?

«No, diciamo che ci sono una serie di questioni che vanno chiarite, ma questo al di là del caso di Riina in sé. Mi sembra però che questo dibattito abbia fatto nascere una discussione su che cosa sia il carcere. Da un lato c’è chi dice che il carcere deve infliggere la sofferenza, restituendo in parte quella stessa sofferenza che è stata inflitta alle vittime, quindi se una persona è in carcere ci deve rimanere e soffrire; c’è anche chi dice, ritornando nello specifico, che Riina va curato in carcere, ma questo equivale a pensare che il carcere possa fare tutto, possa essere pena e rieducazione, infliggere sofferenza e anche prendersi cura delle persone. È come dire che deleghiamo tutto al carcere, quando sappiamo che il carcere, soprattutto in alcune sue forme, per esigenze di controllo non può garantire anche una vita dignitosa. Questa parola è stata usata proprio dalla Cassazione, che ha parlato di una morte dignitosa che spetta a tutti».

Lei diceva che la questione va oltre Riina: perché?

«Sono molte le persone, oltre a Riina, che si trovano in quel regime, il 41bis, nel cosiddetto “ergastolo ostativo”, che riguarda centinaia di persone. Ecco, non dare una prospettiva di mutamento di condizione a centinaia e centinaia di persone che si trovano in carcere magari per 25 anni, che non sanno cosa sarà della loro vita futura, non è proprio di uno stato di diritto».

Sono molte le opinioni che emergono dai giornali. Federico Ferrazza, direttore di Wired Italia, ha scritto in un editoriale che da dibattiti come questo si vede il grado di civiltà del Paese. È proprio così?

«Non credo che sia un dibattito fatto in maniera estemporanea e a volte dettato dai sentimenti “di pancia” a definire il grado di civiltà di un Paese, che invece si vede dalle sue istituzioni, dalla sua capacità di stare saldo di fronte ai dibattiti di pancia, ma anche da come sono fatte le nostre carceri. Se questi dibattiti, pur estemporanei, aiutano a discutere del tema del carcere, credo siano tutto sommato utili. Se però restiamo al livello di vendetta e non vendetta siamo a un punto troppo primordiale del ragionamento.

Se affrontassimo certe questioni con un po’ di lucidità e tranquillità riusciremmo a risolvere diversi problemi delle nostre carceri, per esempio quello dei bambini nati in carcere che stanno con le madri. Sono pochissimi bambini, eppure non riusciamo a risolvere nemmeno questo problema».

Si tratta comunque di una questione di civiltà?

«Certo, perché segna la differenza tra noi, e per “noi” intendo lo Stato e le istituzioni, e la mafia, che ha spesso cercato di infiltrarsi nello Stato, e che fra l’altro ha in questo una delle sue caratteristiche: non essere eversiva ma essere compulsiva nello Stato. La differenza è che uno Stato di diritto è diritto per tutti, persino per una “belva” come Riina. Anche lui può chiedere che venga applicata una norma dello Stato, che magari poi non gli sarà riconosciuta, ma questo è irrilevante. Una collettività non può essere impaurita da un uomo, non può lasciarsi trascinare dai sentimentalismi di pancia, una collettività deve essere forte ed è forte se dimostra che non ha paura di Riina, del suo simbolo, di quello che rappresenta ancora. La “belva”, il “capo dei capi”, è un uomo di 87 anni come ce ne sono tanti in carcere. Di lui si parla, di altri meno, ma non possiamo avere paura di Riina dopo 24 anni che lo teniamo in carcere: se è pericoloso nel regime di 41bis continua a essere pericoloso in qualsiasi altra situazione, ma uno Stato di diritto non può avere paura di uno come Riina. Credo che noi siamo forti se dimostriamo che c’è un diritto anche per Riina, non se diciamo che lui è una belva e deve crepare: in quel caso non siamo forti, ma deboli».