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Le porte chiuse ai ricollocamenti

Continua la crisi dei ricollocamenti di richiedenti asilo sul suolo europeo: la maggior parte degli Stati nicchia, guardando altrove e preferendo pagare le multe per la mancata accoglienza. I Parlamentari europei hanno condannato questi comportamenti da parte di diversi Paesi che non stanno applicando gli accordi presi. In particolare, nelle scorse settimane si è parlato della quota di minori approdati in Italia e ricollocati nel resto d’Europa. Uno. Uno su 5000, numero che continua a lasciare paesi come l’Italia e la Grecia in una sostanziale solitudine nella gestione del fenomeno. Ad aprile soltanto 17.903 richiedenti asilo sono stati ricollocati, circa l’11% delle persone previste dagli obblighi assunti.

È notizia di oggi che la Repubblica Ceca non accoglierà nessun rifugiato fino alle elezioni per la Camera dei Deputati, che si terranno alle fine di ottobre, poiché il sistema «non funziona», come ha dichiarato il ministro degli Interni, Chovanec.

Giulia Gori, del Relocation desk di Mediterranean Hope – Progetto Rifugiati e Migranti della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, afferma che «i numeri parlano chiaro e sono molto preoccupanti, per i minori in particolare, ma in generale per i richiedenti asilo. Nel 2015 gli Stati membri si erano impegnati a ricollocare 160.000 persone, poi i numeri sono ulteriormente stati abbassati a 98.000, successivamente ancora contratti a 33.000. A oggi quello che sappiamo è che sono stati ricollocati circa 18.000 richiedenti asilo, cioè l’11% rispetto agli obblighi assunti. Se poi guardiamo al numero dei minori la quota è ancora più drammatica, uno soltanto è stato ricollocato finora. Questo vuol dire che molte persone rimangono in attesa di capire il Paese dove potranno cominciare il loro percorso di integrazione, e questo ovviamente è inaccettabile».

Com’è possibile che non avvenga questo processo, anche dopo accordi presi?

«Perché molti Paesi preferiscono in qualche modo che vengano avviate procedure d’infrazione nei loro confronti piuttosto che rispettare gli obblighi presi. Pensiamo all’Ungheria, alla Slovacchia, all’Austria, alla Polonia, che non hanno ricollocato nessun migrante dall’inizio del meccanismo di relocation; abbiamo altri Paesi, come la Repubblica Ceca, che da quasi un anno non accolgono più nessuno e di fatto solo Malta e Finlandia stanno rispettando gli accordi presi. Anche la Germania in realtà ha fatto molto, ma nel 2016 e nel 2017 ha rallentato i numeri proprio alla luce del numero alto di accoglienze che ha fatto negli anni precedenti: il fatto è che questo è l’impegno di solidarietà e di condivisione delle responsabilità sull’asilo. Ci sono poi altri Paesi che formalmente tentano di rispettare gli accordi, però poi rifiutano molte delle persone che vengono proposte in relocation sulla base di nazionalità; insomma, creano delle giustificazioni per non accogliere le persone che avrebbero dovuto accogliere, quindi c’è poca volontà di attivarsi e di rispettare questi obblighi di solidarietà sui quali si fonda l’Unione europea».

Come avvengono concretamente le pratiche di ricollocamento?

«È bene spiegare prima di tutto che il ricollocamento è una pratica differente dal ricongiungimento familiare. Per il ricollocamento solo alcune nazionalità al momento ne hanno diritto: i cittadini di nazionalità siriana ed eritrea entrano nell’Unione europea e possono chiedere di essere ricollocati in altri Stati membri. Perché solo queste due nazionalità? Perché viene loro riconosciuta una protezione internazionale che supera il 75% a livello europeo, quindi più di tutte ottengono lo status di rifugiato. Solo queste due nazionalità sono eleggibili per la relocation e possono chiedere di essere rilocate in altri Stati membri. Ora, la logica sarebbe che venissero preferiti gli Stati dove queste persone hanno familiari o vincoli amicali, dove la persona ha ad esempio un titolo di studio più spendibile. In parte accade, ma proprio alla luce della poca adesione al progetto da parte degli Stati membri le persone vengono spostate nei pochi Paesi che accolgono, quindi molto spesso si trovano a essere inserite in contesti nei quali non hanno alcun legame, cosa che non agevola il loro percorso di integrazione. Per l’Italia, il fatto che solo queste due nazionalità possano di fatto accedere alla relocation è un grande problema, poiché non arrivano più molti siriani, che approdano tendenzialmente in Grecia, quindi non è un grande sollevamento dall’onere dell’accoglienza: tra le prime 10 nazionalità dichiarate negli oltre 50.000 migranti che sono arrivati via mare in Italia quest’anno, non ci sono né siriani né eritrei».

Sono le persone che chiedono di essere spostate o lo decidono gli Stati? E se il profilo di un profugo è adatto a uno dei Paesi che non accoglie, a che livello viene chiusa questa porta?

«A livello dello Stato che dovrebbe accogliere e non mette a disposizione quelli che vengono chiamati pledge, i posti a disposizione. Tutto il meccanismo è gestito a livello interstatale con la supervisione dell’Unhcr e di altri organi europei. Il problema è che questi posti sono veramente pochi rispetto ai numeri di rifugiati che arrivano. Recentemente, il 18 maggio scorso, c’è stata una risoluzione del Parlamento europeo che in qualche modo incentivava e sollecitava la Commissione a utilizzare ogni mezzo in suo potere, comprese le procedure d’infrazione, per far rispettare a tutti gli Stati membri gli obblighi di solidarietà e di condivisione delle responsabilità sull’asilo che sono frutto dei trattati. Ora, che effetti avrà questa risoluzione non lo so, però sicuramente si registra una volontà del Parlamento di sottolineare la necessità che tutti gli Stati si attivino e che la commissione in qualche modo utilizzi gli strumenti che ha in suo possesso per renderli attivi».

Come influenza questo discorso il vostro lavoro di Relocation desk?

«In realtà lo influenza marginalmente, perché le persone siriane appunto non sono tra le prime nazionalità che arrivano autonomamente in Italia. Per quanto riguarda invece il nostro progetto di corridoi umanitari, nel quale invece sono coinvolte le persone di nazionalità siriana che fuggono in Libano e qui ottengono un visto d’ingresso legale, non possono poi accedere alla relocation. Questa è una decisione anche del ministero dell’Interno, e quindi quello che noi facciamo è cercare dove queste famiglie abbiano familiari a cui ricongiungersi. Cerchiamo di utilizzare altri strumenti, primo tra tutti il ricongiungimento familiare, ma stiamo cercando di esplorare anche altre vie, perché non sempre è fattibile o ha tempi accettabili; per esempio lo strumento della sponsorship, oppure altri meccanismi di ingresso che alcuni Stati già hanno per tentare di aiutare queste persone a godere del proprio diritto all’unità familiare».

Immagine: l’arrivo della prima famiglia siriana con i Corridoi umanitari