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Sigillare la frontiera “a casa loro”

Il ministro dell’Interno Marco Minniti ha firmato una dichiarazione insieme ai suoi omologhi di Ciad, Libia e Niger per regolare la partenza di migranti verso l’Italia e l’Europa. L’idea prevede di appoggiare la costruzione e la gestione di centri di accoglienza per migranti in Niger e in Ciad, che dovrebbero regolare (o impedire) di continuare il viaggio verso l’Europa che comincia quasi sempre molto più a sud di quell’area desertica di confine. Per capire il contesto di quei luoghi abbiamo intervistato Luca Iotti, fondatore e presidente dell’Ong Bambini del deserto, che da anni si occupa delle fasce più deboli della popolazione in molti paesi africani, soprattutto quelli subsahariani.

Quali contesti dobbiamo immaginare quando parliamo di Ciad e Niger?

«Il Ciad è un paese governato dalla stesso presidente da 27 anni, Idriss Déby, salito al potere con un colpo di stato contro un precedente dittatore, rieletto per 5 volte e sopravvissuto a innumerevoli altri colpi di stato grazie ad appoggi esterni e a un esercito formidabile, che gli ha permesso di resistere anche a ribellioni interne da ovest e a Boko Haram da sud ovest. Un paese ricchissimo di petrolio che predilige i rapporti con la Cina. Il Niger, invece, con la città di Agadez, è il punto chiave dei migranti provenienti da tutta l’Africa occidentale, oltre che dalla Nigeria, dal Cameroun e dalla Repubblica Centrafricana. È un territorio immenso e tra i più poveri del pianeta, ovviamente per chi ci abita, perché nonostante viva di aiuti internazionali, ci sono alcuni prodotti di eccellenza, come l’uranio, che però viene estratto da un’azienda francese che riconosce al Niger profitti esigui. L’ultimo colpo di stato, riuscito, meno di 7 anni fa. Questi sono i due paesi partner dell’Italia nella costruzione dei campi di accoglienza dove ospitare i migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana. Senza parlare della Libia, che precipita sempre più nel caos come dimostra l’attacco di giovedì scorso alla base aerea nel sud del paese in cui sono morte centinaia di persone. Il confine libico con il Niger e il Ciad è quello del Fezzan, praticamente senza controllo. È complicato riunire i capi delle principali tribù, fondamentali per il coinvolgimento nelle operazioni di contrasto con la migrazione in questi luoghi difficili, in centro al deserto».

Luoghi desertici ma crocevia dei flussi migratori…

«Il Niger è il paese focale di passaggio, con la città Agadez, dove arrivano tutte le strade asfaltate dal sud. Qui esiste già un centro di raccolta, identificazione e controllo delle persone, a fianco dell’aeroporto, come mi ha confermato un operatore sul luogo. Creare un campo vasto qui, significherebbe farlo in mezzo al deserto, in una cittadina che sopravvive con il passaggio dei migranti: sigillare la frontiera a sud della Libia e dell’Algeria, significherebbe sbarrare la strada in mezzo al deserto a decine migliaia di persone, rendendo le loro condizioni di vita ancora più drammatiche».

Quali strade alternative potrebbero crearsi, con quel tipo di blocco?

«I flussi migratori, come dice il termine, sono da immaginare come un liquido: se sbarriamo una strada in un punto, si troverà sicuramente un altra strada, magari in un punto più rischioso nel deserto, nel mare, forse si tornerà a tentare il passaggio del Marocco, o a oltrepassare il blocco Algerino, anche se questi due paesi ora svolgono il compito di gendarmi per conto terzi. Spesso in Africa i governi non hanno alcuna remora a violare i diritti umani, andrei cauto a fare accordi con governi con figure che possono mettere a repentaglio la vita di migliaia di persone».

Secondo lei, quanto è possibile che si realizzi concretamente questo progetto?

«Non è la prima volta che l’Italia tenta di convincere il Niger a collaborare per fermare i migranti: il ministro degli Esteri Alfano ha siglato un accordo che prevede il finanziamento di 50 milioni di euro a Niamey per fornire droni, 4×4, formazione per la polizia di confine. Al momento non sembra essere avvenuto ancora nulla. Anche Maroni nel 2010 con l’operazione pro Sahel tentò di fare qualcosa, ma dal punto di vista della cooperazione ho visto che queste operazioni in cui si danno mezzi pratici non sempre funzionano, oltre a essere rischioso per le varie instabilità politiche. Non credo sia una strada, parlando anche di sostenibilità, che possa avere dei vantaggi. Forse si ridurranno i flussi verso il Mediterraneo, ma a che prezzo?».

Immagine: Di Dan Lundberg – Flickr, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3255269