unioni_civili

Unioni civili, nessun flop

Domenica 7 maggio il quotidiano la Repubblica dava grande spazio al numero di unioni civili tra persone dello stesso sesso celebrate in Italia dal maggio del 2016, quando venne approvata la legge Cirinnà che le regolava. In prima pagina si scriveva «In un anno solo 2800 unioni civili», aggiungendo poi la definizione di «partenza in frenata» e di «flop» in riferimento al presunto basso numero di unioni civili contratte finora. Non sono mancate le polemiche, tanto sul piano politico, alimentate anche dall’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, tanto su quello del metodo. Fabio Perroni, membro della chiesa metodista di Via Firenze a Roma e membro di Refo, la Rete Evangelica Fede e Omosessualità, sottolinea che «c’è un errore anche dal punto di vista numerico, prima di tutto perché i dati delle unioni civili non sono ancora pubblici, visto che l’Istat li sta ancora elaborando. Inoltre una frenata può esistere solo se c’è il termine di paragone con l’anno precedente: quell’articolo parla di un anno, quando le prime unioni civili sono di fine agosto-inizio settembre 2016, visto che prima mancavano i decreti attuativi». Inoltre, va sottolineato che 2.802 unioni civili tra persone dello stesso sesso in otto mesi, pari a circa il 2,2% del totale dei matrimoni celebrati nello stesso arco di tempo, non sono un numero inferiore alle aspettative, perché si tratta di un dato in linea con la media europea, anche di Paesi con una tradizione decisamente più solida rispetto al nostro nel campo dei diritti Lgbt.

Al di là dei numeri, colpisce la decisione di Repubblica, che nel frattempo ha corretto l’articolo nella sua edizione online eliminando la locuzione “solo” dal titolo, di valutare una norma che sancisce il diritto di una minoranza attraverso l’analisi quantitativa. Ha senso?

«No, non ha assolutamente senso. Un diritto è tale a prescindere dal numero di persone che poi ne usufruiscono. È sbagliato a livello di significato paragonare una legge che si occupa di diritti a quante persone poi ne usufruiranno. Ci sono almeno due paradossi: se andrà in porto una legge sul testamento biologico, che tutti noi auspichiamo, che cosa succede se ne usufruirà una persona sola? Diremo che non aveva senso? Diremo che non ne valeva la pena?

Allo stesso modo, possiamo fare l’esempio della pena di morte: 20 persone negli Stati Uniti sono state uccise dal governo nel 2016. È un numero minimo, ma quindi non dovremmo lottare contro la pena di morte perché per un numero così limitato di persone non vale la pena?

Ecco, mi sembra che numeri e diritti non possano essere correlati per rispetto delle persone e in questo caso delle coppie».

Durante tutto il percorso parlamentare della legge sulle unioni civili abbiamo assistito a un dibattito a tratti davvero violento e insultante, tra l’altro con alcune posizioni per le quali sembrava che questo diritto dovesse portare a un disfacimento della società e addirittura dei conti pubblici. A distanza di un anno i toni si sono ammorbiditi?

«Nel nostro Paese i toni si alzano quando c’è, o si percepisce, un’emergenza. Si era creata un’emergenza nel campo dei diritti e quindi i partiti, soprattutto quelli del centrodestra, avevano alzato i toni. Adesso c’è la legge, va tutto bene, i numeri confermano che “è un flop”, e quindi i toni si sono abbassati, mentre nel frattempo si sono create altre emergenze. Ecco, il problema è che in Italia viviamo sempre in clima di campagna elettorale».

Quindi quella dei diritti delle persone e delle coppie omosessuali è una battaglia vinta?

«Diciamo che credo che adesso i toni dovrebbero essere alzati per una questione diversa, cioè il problema dell’omofobia. In questo senso l’articolo di Repubblica ha posto una questione interessante, ovvero il fatto che a sud le unioni civili siano veramente minime. Questo è correlato al fatto che al sud è ancora difficile parlare di omosessualità, è difficile uscire allo scoperto, fare coming out, e soprattutto è difficile presentarsi nella società, nel palazzo, sul luogo di lavoro, come coppia».

Nel contrasto all’omofobia le chiese possono giocare un ruolo importante?

«Le chiese sicuramente aiutano e, almeno parlando delle chiese evangeliche, sono avanti rispetto alla politica. Il lavoro culturale è importante e dal punto di vista etico e teologico non penso che sia cambiato l’atteggiamento delle chiese per via dell’esistenza di una legge, in quanto si era già intrapreso da tempo un percorso di accettazione e accoglienza, anche se non di inclusione totale per le persone Lgbt, sia singole che in coppia. Sicuramente la legge aiuta la società, perché quello che fino a ieri era vietato e non garantito oggi lo è, quindi per molte persone diventa quasi una normalità parlare di unioni civili e di coppie. Nonostante il riconoscimento delle convivenze di fatto, però, esistono anche nelle nostre chiese sacche di resistenza: è normale e per certi versi credo anche vitale per il dibattito. Ecco, diciamo che ancora c’è da lavorare all’interno di tutte le realtà del nostro Paese per una piena accettazione e una piena inclusività».

Intorno al 17 maggio, Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, le chiese organizzano iniziative in tutta Italia. Che cosa si vuole dire con le veglie di preghiera?

«L’emergenza oggi nel campo delle persone Lgbt è la correlazione omofobia e bullismo, che nella percezione dei politici è ancora lontana. Chi soffre di più oggi a causa dell’omofobia sono gli adolescenti, mentre le persone adulte si sono sempre più “liberate” da certe paure. Ci sono anche qui sacche di differenziazione, che possono essere tra nord e sud, oppure tra grandi centri e quelli più piccoli, nei quali il controllo sociale è molto più forte. Io credo che le nostre chiese, anche per il 17 maggio svolgano una funzione fondamentale, mentre mi dispiace notare che siano ancora pochissime le parrocchie cattoliche che offrono spazi e si impegnano per la giornata del 17 maggio. Le veglie sono organizzate per la maggior parte dalle chiese evangeliche, che offrono spazi di creatività e riflessione, ma soprattutto ci sono, sono presenti e offrono spazi anche a livello di incontro e accoglienza. Nelle nostre chiese ognuno può entrare senza dover bussare o chiedere se può entrare. È importante pregare, ma è importante anche l’azione che ognuno di noi può fare nei propri posti di lavoro e di vita, nel palazzo, nel quartiere, perché sappiamo tutti la giornata serve per amplificare il problema, ma poi è nella vita di tutti i giorni che l’omofobia colpisce attraverso i pregiudizi, la mancanza di informazione e non solo».

Immagine: di Comunidad Homosexual Argentina, via Flickr