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Space girls. Space women

Il binomio donne e spazio ha per noi oggi un rimando specifico, l’immagine di Samantha Cristoforetti a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, prima donna italiana ad arrivarci e a rimanere a bordo per 199 giorni. La figura dell’astronauta ha sempre affascinato fin dall’infanzia e lei è ormai un esempio del fatto che anche le donne possono diventarlo, uno stimolo per le più giovani a non avere paura di scegliere materie tecnico-scientifiche.

Al Museo Nazionale delle Scienza e della tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano approda una mostra fotografica con protagoniste le donne impegnate in ambito scientifico, in particolare nel campo della ricerca spaziale, un percorso che presenta tre generazioni di donne, dalle ragazze negli space camp, al lavoro nei laboratori di ricerca fino agli uffici dove lavorano donne che ricoprono ruoli a un livello più alto di responsabilità.

La mostra, Space girls. Space women, sarà a Milano fino al 20 giugno e ne parliamo con la curatrice Fiorella Coliolo.

Com’è nata la mostra?

«L’idea è nata circa quattro anni fa, in un momento in cui io lanciavo il progetto Women in Aerospace Europe. Sono un’astrofisica di formazione e lavoro nel campo della comunicazione, così c’è stato un incontro con Sipa Press, agenzia fotografica francese, con la quale volevamo ritrarre il lato umano dello spazio visto dalle donne; donne come soggetto fotografico ma anche come fotografe. In questo modo abbiamo contattato quelli che sono gli attori principali del mondo spaziale, l’agenzia spaziale francese, l’agenzia spaziale italiana, quella europea, il museo dello spazio di Tolosa e abbiamo creato un partenariato che ci ha permesso di creare questa mostra, accompagnata anche da un’applicazione multimediale disponibile su telefonini e tablet che permette a tutti di creare il proprio profilo di Space girls».

Quindi avete scelto di raccontare delle storie?

«Sì, delle storie molto interessanti perché abbiamo anche cercato il lato più umano e passionale di queste donne ritratte nel loro ambiente di lavoro. È un ambiente che comprende anche il gioco quando si tratta di ragazze giovani, adolescenti negli space camp che vivono la loro passione di bambine; passione che speriamo diventi impegno nello studio delle materie tecnico-scientifiche».

Lo scopo quindi non è soltanto invitare le donne a scegliere questo campo ma educare al fatto che non è un ambito precluso e complicato?

«Ho studiato astrofisica a Bologna e anche li, all’inizio, c’erano molti pregiudizi su cosa avrei potuto fare dopo in un ambiente molto difficile. Io credo molto nella passione e nel fatto che possa spingerci al di là di tutto. Vedere queste giovani ragazze che prima giocano e si interessano può essere un modo per mostrare che lo spazio offre delle possibilità diverse: anche se la figura dell’astronauta è quella che ci fa sognare di più, esistono anche altri profili adatti a persone diverse».

Abbiamo tutti in mente alcune donne legate allo spazio e all’esplorazione spaziale. Ma chi sono state le prime a entrare in questo mondo e fare da aprifila?

«Un esempio importante per l’Italia è Francesca Esposito, che è stata impegnata in una missione dell’Agenzia Spaziale Europea andata su Marte, ExoMars. In questa fotografia abbiamo raccontato come la ricerca oggi si appoggi molto sullo studio della terra stessa, quindi sono state fatte delle foto in un deserto marocchino in un momento in cui lei stava facendo dei test su uno strumento che poi è volato sulla missione. Anche questo è il nostro messaggio: evidenziare il ruolo delle donne, ispirare le giovani ragazze, ma anche promuovere progetti spaziali italiani ed europei, capire che lo studio dei pianeti inizia anche sulla terra».

Nei laboratori e nella ricerca, anche nel passato, non è raro trovare delle donne coinvolte, anche se poi l’immagine del progetto è quasi sempre un uomo, come mai?

«Il problema che noi notiamo nel campo della ricerca spaziale o comunque nelle materie tecnico-scientifiche è che a livello universitario c’è una parità di iscrizione, poi per tradizione, educazione famigliare o per ragioni personali, le donne non arrivano a un livello di leadership importante. Quando guardiamo i capi d’agenzia, i posti di responsabilità e i consigli di amministrazione, la figura delle donne è molto più bassa. Oggi si cerca di cambiare, di capovolgere un po’ i paradigmi della presenza femminile nei posti di responsabilità, però dobbiamo ancora lavorarci insieme».

Quali sono i traguardi fondamentali che vengono mostrati in mostra?

«Un esempio è il ritratto Simonetta Di Pippo, astrofisica di formazione che ha lavorato per l’Agenzia Spaziale Italiana, l’Agenzia Spaziale Europea e adesso è a Vienna e si occupa dell’ufficio Spazio delle Nazioni Unite. Questo è uno step importante anche per l’Italia: penso sia la prima o la seconda donna che occupa questa posizione o comunque una posizione di così alta responsabilità. Un altro esempio è Amalia Ercoli Finzi che è una ricercatrice, professoressa di successo e “mamma” della missione Rosetta, ovvero la missione che ha studiato la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko. Loro sono due esempi per l’Italia e dei role model, modelli a cui le giovani ragazze possono ispirarsi, una per la ricerca l’altra per l’ambiente più internazionale in termini di istituzione e cooperazione internazionale».

Nel percorso che avete seguito ci sono delle storie che secondo lei sono particolarmente appassionanti?

«Le scelte sono personali ma per esempio secondo me è molto bella la storia di una giovane astrofisica, Fatoumata Kebe, che abbiamo ritratto nell’osservatorio astrofisico di Parigi. Lei viene da un ambiente difficile, la periferia di Parigi, dove l’accesso all’educazione è difficile e anche limitato, in particolare per le donne. Nell’intervista che abbiamo realizzato lei racconta che, come molte sue amiche, il suo futuro era lontano dalla possibilità di avvicinarsi alla ricerca, all’astrofisica e al mondo spaziale. Scherzosamente lei dice che il suo destino sarebbe stato quello di lavorare come donna delle pulizie e questo oggi le piace ricordarlo perché in qualche modo si occupa di “pulizia dello spazio”, di quello che viene chiamato space debris. Oggi lei ha preso il dottorato di ricerca, è una ricercatrice di successo e ci accompagna in questo percorso fotografico. Penso che questa storia sia importante come stimolo per i più giovani e ancora una volta dimostra che la passione e l’impegno possono superare qualsiasi barriera».