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Palestina, tra programmi e leadership al tramonto

Lunedì 1 maggio il presidente dell’ufficio politico di Hamas, Khaled Meshal, ha presentato il nuovo programma del movimento indipendentista palestinese, che controlla da dieci anni la Striscia di Gaza. Questo documento modifica la carta costitutiva del movimento, risalente al 1988, ma non la sostituisce interamente.

Facendo seguito ad altre dichiarazioni dello stesso Meshal, che già nel 2009 aveva espresso posizioni simili, nel nuovo programma si accetta per la prima volta in modo ufficiale la creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967, quindi nei territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza occupati da Israele durante la cosiddetta “guerra dei 6 giorni” del giugno di 50 anni fa. La dichiarazione avvicina quindi Hamas a quella “soluzione a due Stati” che per più di vent’anni è stato l’obiettivo dei negoziati di pace e che il movimento non aveva mai accettato. «È una dichiarazione importante – spiega Luigi Bisceglia, rappresentante Paese per il Vis, Volontariato Internazionale per lo Sviluppo, in Palestina e Israele – ancora di più per quello che non dice, perché, pur non riconoscendo ufficialmente l’esistenza e la legittimità ad esistere dello Stato di Israele, Hamas si dice pronto a trattare affinché si possa creare uno Stato palestinese che di fatto possa comprendere la Cisgiordania pre-guerra dei sei giorni e ovviamente la striscia di Gaza, lasciando implicitamente il resto del territorio a Israele. Questa è forse l’unica vera notizia».

Oltre a queste dichiarazioni, va sottolineata anche un’altra assenza: rispetto alla carta del 1988 è scomparso il riferimento ai Fratelli musulmani. Nel nuovo documento, infatti, Hamas non si definisce più “un’ala della Fratellanza”, ma “un’organizzazione palestinese indipendente”. La sensazione è che si tratti di una decisione strategica piuttosto che di una trasformazione identitaria, di un modo insomma di compiacere l’Egitto, che con l’arrivo al potere di Abd al-Fattah al-Sisi ha messo fuorilegge i Fratelli musulmani, a cui apparteneva invece il suo predecessore, Mohamed Morsi. «Va ricordato – prosegue Bisceglia – che le condizioni di vita dei palestinesi della Striscia di Gaza sono peggiorate, proprio perché non ci sono più relazioni politiche e diplomatiche con l’Egitto. Definirsi semplicemente “movimento musulmano” non più legato alla Fratellanza strategicamente e politicamente è un cambiamento importante, che potrebbe aprire nuovi canali diplomatici anche e soprattutto verso l’Egitto». Il Cairo in effetti controlla il valico di Rafah, l’unico punto di connessione con l’esterno per gli abitanti della Striscia di Gaza.

In generale, ciò che emerge dal documento è una trasformazione del linguaggio politico di Hamas, dal quale sono state espulse in particolare le istanze antisemite. «Non ci vedo però nulla di sostanziale – continua Luigi Bisceglia – . Oltretutto, la maggior parte di membri della direzione politica di Hamas si trova all’estero e il dubbio è che la base di Hamas, che invece vive nella Striscia, questo cambio di linguaggio non l’abbia apprezzato tantissimo, viste le condizioni di vita». Un portavoce del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha definito il nuovo programma di Hamas «un tentativo di ingannare il mondo».

Tuttavia, è possibile che l’aspetto più importante di questa nuova carta non stia tanto nei contenuti, quando nei tempi della presentazione: due giorni dopo le dichiarazioni di Mashal, infatti, il presidente Palestinese Abu Mazen, che appartiene ad Al-Fatah, il partito che si contrappone ad Hamas, si è recato a Washington per incontrare il presidente statunitense Donald Trump. In un momento il cui il processo di pace sembra sparito dalle agende globali, al punto che il giornalista canadese Gwynne Dyer definisce la pace tra Palestina e Israele «sempre più lontana», con questo incontro si è nuovamente parlato della creazione di uno Stato palestinese, e gli Stati Uniti hanno assicurato che svolgeranno un ruolo da mediatori in vista di una ripresa del percorso. Secondo Luigi Bisceglia, «non c’è però nessun modo di pensare a uno Stato palestinese in nuce perché non c’è nessun tipo di continuità territoriale fra Cisgiordania e Striscia di Gaza». Nell’incontro tra il presidente palestinese e il suo omologo statunitense si è affermato di voler arrivare al più presto a una pace, ma si sono evitati tutti i temi più problematici, a partire dallo spostamento della capitale israeliana da Tel Aviv a Gerusalemme fino a tutto il discorso legato al diritto al ritorno dei profughi e rifugiati palestinesi. «Se ci fosse davvero una volontà politica della comunità internazionale e in particolare degli Stati Uniti – prosegue Bisceglia – molti di questi nodi si potrebbero sciogliere in tempi relativamente brevi».

Non bisogna dimenticare che una parte non indifferente degli ostacoli al processo di pace provengono anche dalla leadership palestinese e dall’esistenza, nei fatti, di due diverse “Palestine”, che nessuno dei numerosi patti di unità siglati negli ultimi 12 mesi è riuscito a ricomporre. A conferma di quella che appare una frattura difficilmente sanabile nel breve periodo, il 13 maggio i palestinesi della Cisgiordania voteranno, dieci anni dopo l’ultima volta, per le elezioni amministrative, ma questo diritto non sarà invece riconosciuto agli abitanti della Striscia di Gaza. «Quel che succederà il 13 maggio si può ampiamente prevedere – ricorda ancora il rappresentante del Vis – , nel senso che Fatah rimarrà il primo partito in Cisgiordania. Non vedo altre possibilità diverse da questa».

Le colpe di questa frattura vanno cercate in tutti gli attori di questa storia, e lo stallo di oggi dovrebbe imporre una profonda riflessione sulla leadership di Fatah, l’unico movimento palestinese che sulla carta, grazie al suo riconoscimento internazionale, potrebbe riuscire a trasformare il debole dialogo in una vera agenda politica. Abu Mazen ha compiuto da poco 82 anni, ma non sembra esserci all’orizzonte una nuova generazione di politici palestinesi in grado di rilanciare il processo di costruzione del proprio Stato. «Noi – conclude Luigi Bisceglia – all’Università di Betlemme teniamo un master in cooperazione e sviluppo, facciamo un percorso biennale con persone più o meno giovani che sono davvero motivate e decidono di rimanere in Palestina perché vogliono aiutare il proprio Paese e vogliono veramente creare un percorso endogeno di sviluppo. Però il disincanto e la disaffezione per la politica la fanno da padrone, e anche la maggior parte dei miei studenti non si riconosce in nessun leader. Forse il leader più carismatico rimarrebbe Marwan Barghouti, che peraltro è tornato agli onori delle cronache perché da 17 giorni è in sciopero della fame e assieme a lui ci sono altri 1500 prigionieri palestinesi che sono detenuti nelle carceri israeliane. Probabilmente però non c’è la volontà politica di avere un delfino, per tanti motivi e forse anche perché pure noi, in quanto comunità internazionale, preferiamo tenerci chi abbiamo, cioè Abu Mazen, che almeno ci dà delle garanzie».