migranti

Le «città-rifugio» si ribellano a Trump

Lo scorso 25 gennaio il presidente Donald J. Trump ha emanato l’ordine esecutivo «Proteggere la nazione dall’ingresso di terroristi stranieri negli Stati Uniti», che da un lato limitava l’accesso agli Usa e dall’altro minacciava di tagliare i fondi a città, contee e stati «colpevoli» di proteggere gli immigrati irregolari.

Diverse di queste amministrazioni, che proclamandosi «città-rifugio» si sono unite al movimento che offre asilo alle persone colpite dal giro di vite minacciato e ora realizzato dal nuovo presidente (ne avevamo parlato qui e qui).

hanno reagito, citando in giudizio il provvedimento. Le prime sono state la città di San Francisco e la Contea di Santa Clara (che comprende buona parte della Silicon Valley), sostenendo l’incostituzionalità – in particolare – del taglio dei fondi. Da allora, altri governi locali hanno seguito l’esempio, da Seattle a Richmond (California), a due città nel Massachusetts.

La risposta governativa è arrivata il 21 aprile con l’ultimatum del Dipartimento di Giustizia alla città di New York e ad altre otto amministrazioni locali, le città di Chicago, New Orleans, Philadelphia, le contee di Miami-Dade, Clark (Nevada), Milwaukee (Wisconsin), Cook (Illinois) e lo stato della California. Entro il 30 giugno devono dimostrare di non stare violando la legge federale offrendo apertamente rifugio a immigrati clandestini (parliamo di 11 milioni di persone senza documenti nel territorio Usa).

Pochi giorni dopo, la palla è tornata al fronte delle città-rifugio, con una sentenza che ne ha sancito una prima vittoria: il 25 aprile William H. Orrick, giudice federale di San Francisco, ha «temporaneamente» bloccato l’ordine presidenziale, con un’ingiunzione che ha valore su tutto il territorio nazionale e che ha fatto schiumare di rabbia il Presidente, che ha ringhiato fra i denti «ci vediamo in tribunale». Secondo il giudice, il presidente, vincolando miliardi di dollari di fondi federali all’applicazione delle misure di controllo sull’immigrazione, ha travalicato i suoi poteri con una decisione che solo il Congresso può prendere.

Dal canto suo l’amministrazione Trump contesta le città-rifugio di mettere in pericolo la pubblica sicurezza rifiutando di collaborare con le agenzie federali per l’immigrazione, e cita New York e Chicago, due delle principali città-rifugio, «schiacciate sotto il peso dell’immigrazione illegale e della criminalità». In realtà la prima ha il livello di criminalità più basso da decenni e il picco di crimini violenti della seconda, dicono gli esperti, ha poco a che fare con l’immigrazione clandestina.

Da parte loro i sostenitori dei «rifugi» sostengono che obbligare la polizia e le autorità locali a «scovare» gli immigrati da espellere romperebbe il rapporto di fiducia delle comunità locali (in particolare ispaniche) nelle autorità: meno persone sarebbero disposte a denunciare reati o a testimoniare, con il risultato di far aumentare, e non diminuire, la criminalità.

È già la terza volta che l’amministrazione Trump si vede chiudere la porta in faccia: altre due corti federali (Hawaii e Maryland) avevano sospeso gli ordini esecutivi che negavano gli accessi da alcuni paesi a maggioranza musulmana, alla fine di gennaio e all’inizio di marzo. E come in quei casi, anche ora Trump ha fatto ricorso alla Corte Suprema.

Che la strada fosse in salita lo si era già capito quando, subito dopo il primo ordine esecutivo, all’inizio di febbraio l’Immigrant Legal Resource Center (Ilrc) aveva diffuso dati secondo cui almeno 4 stati, 364 contee e 39 città avevano attuato una forma di «rifugio». Sempre secondo l’Ilrc, delle 168 contee in cui si trova la maggior parte degli immigrati irregolari, 69 si dichiarano «contee-rifugio».

Così, anche se alcune hanno fatto marcia indietro di fronte alla minaccia di perdere milioni di finanziamenti e di scontrarsi con la Casa Bianca, il braccio di ferro fra Trump e le città-rifugio è tutt’altro che concluso.

Immagine: via Flickr