mostra

10 anni e 87 giorni

Una mostra che è stata anche a Berlino, in occasione dello European Month of Photography, arriva a Siena in una cornice altrettanto suggestiva: quella di piazza Duomo, nelle sale di Santa Maria della Scala, per portare una riflessione su un tema delicato, che sembra debba essere lontano da noi ma non ha mai smesso di essere attuale: quello della pena di morte.

La creatrice e curatrice, Luisa Menazzi Moretti, si è ispirata alle parole dei condannati a morte nel carcere di Livingstone in Texas dove, dopo un tentativo di fuga da parte di sette prigionieri nel 1999, è stato trasferito il braccio della morte. Una condizione di vita che prevede la totale solitudine dei detenuti che non si possono vedere, non possono avere relazioni, stanno in piccole celle dalle quali escono una volta a settimana per andare in un cortile circondato da muri alti sette metri. Non possono toccare nessuno, parenti e figli compresi, nemmeno prima dell’esecuzione. Si tratta insomma, come dice Luisa Menazzi Moretti, «di una morte in vita».

Com’è nato questo progetto?

«Io ho vissuto in Texas per diversi anni quando ero un’adolescente, ero in una cittadina universitaria a quaranta miglia da Huntsville, dove si trovava il braccio della morte. Questa cosa ha sempre suggestionato molto la mia fantasia e, tra l’altro, in quel periodo ho conosciuto anche dei prigionieri che erano nel carcere. Ho voluto tirare di nuovo fuori quest’argomento per un motivo: il Texas rappresenta, da questo punto di vista, la punta dell’iceberg in negativo perché è lo Stato appartenente al mondo democratico occidentale con il maggior numero di esecuzioni annue.

Questo progetto ha voluto dare peso al lato umano delle persone che sono esseri viventi, uomini, molto spesso non per forza criminali: infatti in tante situazioni ci sono molti dubbi di colpevolezza. Sono partita dalle loro parole, dai loro racconti e dalle loro lettere che hanno suscitato nella mia mente delle immagini che poi ho riprodotto con la fotografia.

Io lavoro molto con le parole, spesso non fotografo quello che vedo ma quello che leggo e i pannelli con le immagini sono accostati alle interviste o alle lettere dei carcerati. Le storia partono dal 1982, anno in cui è stata introdotta l’iniezione letale al posto della sedia elettrica, quindi ho scelto quella data come punto di partenza.

I morti a oggi sono più di 540, le storie quindi sono tantissime. Io ho scelto quelle che suscitavano in me delle immagini. Per esempio, una frase che mi ha colpito riguarda il racconto di un matrimonio per procura, celebrato attraverso un vetro. Alla sposa viene detto che suo marito l’anello potrà indossarlo solo dopo l’esecuzione. L’immagine che ne è scaturita è quella di una donna sconvolta e di una mano che si appoggia su un vetro».

Come fare a rappresentare dei concetti o degli stati emotivi?

«Credo che sia un po’ lo stesso processo di quando leggiamo un libro: ci immaginiamo delle cose, poi magari vediamo un film e non corrisponde a quello che abbiamo pensato. Il processo è questo, poi credo che ognuno possa rappresentare le sue immagini in modi totalmente diversi, quindi questa è solo una possibile rappresentazione di questa tematica. Io non ho voluto concentrarmi sulla morte, sull’aspetto crudele, brutale, sanguinoso, ma ho voluto dare una versione che si concentra di più sulla vita dei detenuti, sulle loro giornate, anche se sono vuote, sui loro pensieri e sulle loro emozioni».

Avendo vissuto in Texas ha potuto percepire qual è il pensiero e il sentimento comune intorno a questa pratica, quella della pena di morte?

«Innanzitutto sono 29 gli stati che praticano o contemplano ancora la pena di morte negli Stati Uniti; anche in California è prevista, ma non viene praticata dal 2007 e i detenuti rimangono in carcere. Mi sembra che la mentalità sia ancora un po’ di frontiera, da far west, quella di farsi giustizia da soli e di voler vendicare, attraverso lo Stato, un torto gravissimo. Io posso comprendere l’impulso del singolo, ma non posso comprendere uno Stato che si comporta come un individuo in balìa di un raptus e che si fa giustizia da solo. Secondo la mia esperienza, negli Stati Uniti, molto spesso c’è una posizione libera che prescinde da quella che è l’appartenenza politica del singolo cittadino, repubblicano o democratico che sia. Penso che sia una questione del tutto personale ma che in Texas vede la maggior parte delle persone favorevoli».

Non lo abbiamo ancora detto: a cosa si riferisce il titolo della mostra?

«Giusto. Dieci anni e ottantasette giorni è il tempo medio che un carcerato passa nel braccio della morte in Texas, in una situazione disperata. Spesso queste persone sono assistite da medici, prendono antidepressivi per dormire, cercano di passare il tempo pulendo la loro cella anche quattro volte al giorno, leggono perché non possono guardare la televisione, se si comportano bene hanno giusto la possibilità di comprare una radio».

Immagine: via Facebook