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Pesach. L’attualità della Pasqua ebraica

«La festa è collegata allo scorrere del tempo e quindi a una delle dimensioni essenziali della vita. Dobbiamo recuperarne il significato. Nella festa convivono passato e futuro. Senza la festa, che dà senso al tempo, alla storia, questa sarebbe un agglomerato informe di momenti accostati l’uno all’altro senza un filo conduttore. Mentre esci dal presente, verso il passato e iI futuro, esci anche da te stesso. La festa ti porta fuori di casa. È sempre Pesach, passaggio alla libertà, alla novità. È sempre inaugurazione, come Chanukkà », così si legge nella postfazione a cura di Filippo Gentiloni fatta al libro «Le feste ebraiche», scritto dalla giornalista e saggista Pupa Garribba e edito dalla cooperativa Com Nuovi Tempi – Confronti, già uscito già qualche anno fa, ma sempre attuale.

«La Pesach, Pasqua ebraica, è legata alla libertà – dice a Riforma.it Pupa Garribba –. La libertà dalla schiavitù; la libertà da uno dei periodi più tragici per il popolo ebraico; quando riuscì a mettersi in salvo, grazie alla fuga, dalla privazione dei più elementari diritti che precludevano la possibilità di movimento e di scelte. L’uscita dall’Egitto, per noi ebrei, è ancora oggi l’anelito verso quella libertà per la quale sempre ci battiamo, ogni giorno, ora dopo ora. Quella “liberazione” dalla schiavitù, rimane per noi un ricordo indelebile, sia per religiosi che laici».

Incontrare l’ebraismo attraverso le sue feste:

Shabàth, Rosh hashanà, Yom Kippùr, Sukkòth, Chanukkà, Tu Bishvàt, Purím, Pesach, Shàvuòt, è importante per conoscere un tassello del pluralismo delle fedi e delle culture presenti nell’Italia di ieri e di oggi.

La prima sera di Pesach le famiglie ebraiche si riuniscono intorno a un tavolo per celebrare il Seder, una cerimonia durante la quale si legge la Haggadah, il racconto dell’uscita degli ebrei dall’Egitto, arricchito di midrashim (parabole) e commenti dei Maestri, poi si conclude con una cena, canti corali di inni e melodie che si tramandano di generazione in generazione e di luogo in luogo: «Il Seder – ricorda Garribba – è una cerimonia di alto valore pedagogico dedicato in particolar modo ai giovani. Il libro che narra l’uscita dall’Egitto, l’Haggadah, è letto in ogni famiglia laica e religiosa; in questo modo è possibile tramandare e ricordare alle generazioni presenti e future che siamo liberi perché abbiamo scelto di spezzare le catene della schiavitù. La lettura dell’Haggadah si sviluppa proprio dalle domande dei più giovani commensali riuniti intorno al tavolo, che spesso pongono come prima domanda proprio il perché quella sera – Pesach – sia diversa da tutte le altre sere. Una domanda fondamentale sulla quale si sviluppa il Seder».

«Per sette giorni mangerete pane azzimo, ma prima che giunga il primo, toglierete dalle vostre case ogni lievito; osserverete quindi questo giorno in tutte le vostre generazioni», si legge su Esodo 12, 15-17 per rivivere, nel tempo, il momento fatidico della liberazione dalla schiavitù e della loro rinascita come popolo libero. Gli ebrei utilizzano ancora oggi il pane azzimo per ricordare la fatica e le pene di quella faticosa traversata.

Molte analogie possono essere fatte con le sofferenze di altrettante persone oggi in fuga da guerre e violenze, ovviamente non può non venire alla mente anche il conflitto israleo-palestinese che attanaglia quell’area: «La novità di quest’anno è proprio l’uscita di una nuova Haggadah – dice ancora Pupa Garribba –. Si chiama l’Haggadah del Giubileo; ossia a cinquant’anni dalla Guerra dei sei giorni. Da quel giugno del 1967, quando la guerra cambiò definitivamente la geografia dell’area mediorientale. Questa Haggadah è stata fortemente voluta da un Gruppo di pensiero dal nome Siso, ossia Save Israel Stop the Occupation, dunque salviamo Israelele e finiamola con l’occupazione; un Haggadah con un pensiero rivolto verso la pace tra “israeliani e palestinesi”. L’Haggadah raccoglie diverse riflessioni di artisti e intellettuali, pacifisti – noti, come la cantante Noa, e meno noti a livello internazionale. Ieri sera ho voluto leggere ad alcuni amici un breve estratto, una riflessione toccante, proposta da un rabbino: Michael Melchior, già deputato del Parlamento israeliano (Knesset), che vorrei condividere con voi. “L’Haggadah ci ricorda che la Terra d’Israele non è stata promessa a noi per eredità o per diritto. Canaan non è la terra ereditata dai nostri avi. Abbiamo un legame con questa terra solo in virtù della promessa di Dio a Abramo, che comanderà i suoi figli di agire secondo diritto e giustizia. Questo è un patto condizionato dal nostro comportamento morale. Ora che siamo tornati alla Terra, ci dobbiamo difendere e dobbiamo proteggere la nostra sicurezza ma non dobbiamo fondare la nostra esistenza sulla forza della spada. Se in Egitto eravamo stranieri e ad alcuni erano negati il diritto di esistenza, di libertà, e in questo stava la radice della nostra soggezione, noi non dobbiamo fare ad altri quello che non vogliamo sia fatto a noi stessi. Il popolo palestinese che vive in mezzo a noi, vuole anch’esso la sua Terra, la sua esistenza, la sua libertà”».

La matzà, il duro alimento che sostituisce il morbido e saporito pane di tutti i giorni, indica il contrasto tra l’opulenza dell’antico Egitto, l’oppressore, e le miserie di chi, schiavo, si accinge a ritrovare appieno la propria identità. Può anche ricordare che la libertà è un duro pane, un pane duro che oggi è cibo per rifugiati e richiedenti asilo: «A Milano si è tenuto uno straordinario evento dove si è deciso di invitare tutti all’accoglienza e dove si è stabilito di prendersi cura, con più vigore, di chi è più bisognoso. Vorrei che si sapesse un fatto poco noto: in Israele gli ospedali presenti nel Nord della Galilea sono fortemente impegnati nella cura e accoglienza di profughi siriani. Notizie che non raggiungono i grandi media, che però esistono».

Immagine: Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=119699