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Un mese in Africa come regalo di compleanno

«Sono partito su invito del presidente dell’associazione. Ho pensato che in occasione dei miei 70 anni un salto in Africa potevo anche farlo!».

È iniziata così l’avventura di Dino Bellion, volontario per un mese nel laboratorio di falegnameria di Nanyuky, in Kenia, tramite l’Onlus Harambee.

Com’è il ritmo della vita?

«La parola d’ordine è pole pole, piano piano. Tutto si svolge con l’African time, quindi gli appuntamenti possono succedere o no, perché tutto dipende da una serie di fattori. Però è una dimensione molto più umana della nostra, meno stressante. Penso che lì lo stress non sappiano ancora cos’è. Molta gente, praticamente la maggioranza, vive alla giornata, per cui “oggi ho mangiato, mi basta, poi domani si vedrà”. Per noi è impensabile vivere così. Ci roviniamo l’oggi pensando al domani, invece l’oggi va vissuto pienamente, con un po’ più di spensieratezza».

Descrivimi la tua settimana.

«La giornata lavorativa iniziava alle 8 del mattino e finiva alle 5, con una pausa di un’ora e mezza. Il sabato era il pizza day. La domenica era il nostro giorno di libertà, e allora facevamo qualche gita. Partivamo al mattino, ovviamente quando il pulmino, il matatu, ce lo permetteva. È un pulmino a 15 posti, che ovviamente parte quando è pieno, senza orari. Non ho davvero idea di quanto lunghe fossero le trasferte, perché non guardavo mai l’orologio. Mi sono subito abituato al ritmo locale! E poi il paesaggio attorno era così bello che non c’era bisogno di guardare l’ora.

Quello che colpiva è che la domenica le città, di solito gremite di gente, erano spopolate. Erano tutti in chiesa, a partecipare alle lunghissime funzioni, che duravano dalle 8 del mattino alle 6 di sera, e che sono espressioni delle infinite ramificazioni religiose presenti sul territorio».

Hai mai assistito a una funzione?

«Solo indirettamente. La mia sensazione era di assistere a un spettacolo, talvolta anche violento, con il predicatore che a volte addirittura piangeva. Mi sembrava di assistere a del terrorismo religioso. Sentivo come se l’individuo venisse proprio mortificato. Lì capita che qualcuno creda di aver ricevuto la chiamata da Dio e allora fonda una nuova chiesa. È questo che ti lascia con molti interrogativi, perché la gente ha paura di Dio. Ho trovato una fede molto timorosa, c’è una specie di indottrinamento. E poi è ancora fortissima la superstizione, retaggio di un passato più o meno remoto».

Come si rapportava la gente del posto con te?

Un bianco, un musungu, è visto con sospetto. Non siamo guardati di buon occhio. Gli unici che vengono lì, ti toccano, ti prendono la mano, ti tirano i peli delle braccia (perché i loro genitori non li hanno) sono i bambini. Gli adulti invece sono sospettosi, probabilmente come espressione di un residuo del colonialismo».

Che cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«Nel mio piccolo mi sono sentito come una goccia nel deserto, però penso che tante gocce facciano una pioggia. Se dovessi fare un bilancio direi che dovrei tornare. Se la salute me lo permette probabilmente tornerò l’anno prossimo, perché ho lasciato molte cose da fare, e mi piacerebbe concluderle. Se poi qualche lettore volesse sostenere Harambee è possibile donare il 5 per mille (94036660044)».