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Simboli religiosi e discriminazione

«Sì al divieto di indossare il velo sul posto di lavoro»: la scorsa settimana i quotidiani italiani hanno riassunto in modi simili a questo la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, che ha stabilito che non è discriminatorio proibire di indossare visibilmente, sul lavoro, simboli politici, religiosi e filosofici se una norma interna all’azienda lo prevede. «In qualche modo – spiega Ilaria Valenzi, avvocata e consulente legale della Commissione delle chiese evangeliche per i rapporti con lo Stato (Ccers) – il simbolo è uno strumento attraverso cui si crea uno stereotipo. Da questo punto di vista è molto semplice incorrere nella sovrapposizione fra un’appartenenza personale e quello che gli altri vedono di noi attraverso l’esposizione del simbolo. Per alcune confessioni la rappresentazione di sé attraverso un simbolo esterno fa parte di un percorso di ricerca personale, per altre di precetti della confessione. Bisognerebbe avere la capacità di valutare quanto l’esteriorità dell’appartenenza confessionale sia discrimine fra la scelta personale e la norma della religione a cui si appartiene. E quanto gli stati possano entrare in questa scelta, perché la trappola della neutralità potrebbe incidere in maniera molto forte sulle scelte personali».

Questo provvedimento è stato definito “anti islam” o “anti velo”: una definizione fuorviante?

«È una sentenza che ci parla di una legge, in qualche modo, applicata in tutti gli stati membri dell’Unione europea, con cui è stata recepita la direttiva che si occupa di parità di trattamento e di condizioni sul luogo di lavoro. Siamo in un contesto circoscritto, non è una sentenza contro il velo islamico, ma ci dice qualcosa di importante anche su di esso, come su tutti i simboli che il singolo decide di indossare o esporre nell’ambito lavorativo. Siamo quindi in un contesto diverso rispetto a quello che è stato individuato dai giornali, ma anche rispetto a una sentenza che parli esclusivamente di libertà religiosa. Non è una sentenza su questo, ma si occupa di una discriminazione che ha anche delle motivazioni religiose, politiche e filosofiche, anche perché nel contesto del diritto dell’Unione europea, questi tre elementi non sono scissi».

Questo provvedimento va a sovrascriverne altri già esistenti nei diversi paesi?

«È una sentenza che ci racconta come funziona il diritto dell’Unione Europea e la sua applicazione nei nostri paesi: c’è stato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia alla quale si è chiesto come la legge vada interpretata alla luce dei principi europei, in questo caso il principio di non discriminazione. La sentenza richiama a un’interpretazione del diritto dell’Ue, dall’altra lascia come sempre alla giurisdizione interna comprendere se quella legge è discriminatoria oppure no. In alcune parti, nella discussione se sussista o meno una discriminazione diretta, ci dà delle indicazioni precise e ci dice che la scelta del datore di lavoro di vietare l’ostensione dei simboli nei riguardi dei propri lavoratori e lavoratrici che sono a contatto con i clienti è una scelta di neutralità che l’azienda può fare: questo vuol dire che non c’è una discriminazione diretta per il diritto dell’Unione europea. Dall’altra ci dice che per valutare se il vietare i simboli nasconda una discriminazione indiretta, anche per motivi religiosi, sarà il giudice nazionale a doverlo valutare».

Il concetto di neutralità esprime un’idea precisa di laicità, sicuramente non come incrocio delle differenze. Che ne pensa?

«È vero, e riguarda anche il come le Corti europee entrano nella regolamentazione di questi fenomeni nei singoli stati. Potrebbe succedere anche nei confronti di un sistema di laicità alla francese come noi lo conosciamo, con una totale negazione della possibilità di esporre i propri simboli: da questo punto di vista il diritto dell’Ue arriva fino a un certo punto, con una serie di contraddizioni. Il sistema riconosce la libertà degli individui e cerca di costruire un rapporto di democraticità tra i paesi aderenti all’Unione, che garantisca la possibilità di professare una fede, anche laicamente. Dall’altra parte però non entra nelle legislazioni nazionali ed è dunque possibile che ci siano degli eventi in contrasto con quello che l’Ue cerca di costruire».

Immagine: via Pixabay