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In che direzione va la riforma del processo penale?

Mercoledì 15 marzo il Senato italiano ha approvato con un voto di fiducia il disegno di legge delega di riforma del processo penale. Con 151 voti a favore e 121 contro, la riforma ora potrà tornare alla Camera per l’approvazione definitiva, visto che nel suo primo passaggio, che risale addirittura al settembre 2015, era stata approvata con un testo differente da quello attuale.

La riforma, voluta in particolare dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, prevede un’ampia modifica del meccanismo della prescrizione, un limite più stringente all’azione del magistrato alla fine delle indagini preliminari, una delega al governo per una riforma sulle intercettazioni e una modifica dei tempi di prescrizione e delle modalità con cui vengono calcolati.

Meno rilevanza nel dibattito politico hanno ottenuto invece le modifiche che verranno apportate all’ordinamento penale, già oggetto degli Stati Generali dell’esecuzione penale, che avevano coinvolto numerosi soggetti costituendo tavoli di lavoro tematici volti a comprendere e modificare il sistema delle carceri e delle misure alternative alla detenzione, oggi regolato da una legge del 1975. Tra i protagonisti degli Stati Generali c’era anche l’associazione Antigone, che svolge un ruolo di osservatorio permanente sul tema. Secondo Susanna Marietti, «non è facile dire in che direzione va la riforma, perché si seguono tante strade, diverse e spesso contraddittorie tra loro. Diciamo che somiglia un po’ al decreto Milleproroghe che viene votato ogni anno tra gennaio e febbraio: c’è dentro un po’ di tutto».

I temi che stanno dividendo la politica in modo più profondo riguardano le intercettazioni e i tempi di prescrizione. Qui qual è l’impostazione?

«Sulle intercettazioni non mi pronuncio perché non è una materia di cui ci siamo occupati in modo stretto, mentre l’aumento dei tempi di prescrizione è qualcosa che non amiamo particolarmente, perché significa dare la possibilità di tenere in ballo una persona durante il processo per più tempo e quindi di sospendere una vita. Essere sotto processo non è gradevole, anche perché magari dopo si viene assolti. Inoltre, il rischio è di sedersi su questa lunghezza del processo e quindi permettere ai magistrati ritmi più lenti. Noi vogliamo una giustizia rapida, che rapidamente dica alla persona in che direzione va la sua vita».

Parliamo invece della riforma dell’ordinamento penale. Antigone ha collaborato con il ministero della Giustizia durante gli Stati Generali dell’esecuzione penale. Qui si riparte da quell’esperienza?

«Bisognerà vedere i decreti delegati, su questo non c’è dubbio, perché il Parlamento sta delegando il governo a riscrivere un nuovo ordinamento penitenziario che vada a riformare o sostituire quello del 1975. Vedremo come verrà interpretata la delega, però tutto sta nel vedere come viene riformato.

Lo spirito della delega era quello che avevamo auspicato in molti punti, e tra l’altro alcuni tra i criteri di delega che sono anche stati inseriti alla Camera durante il primo passaggio erano stati proposti proprio da Antigone, come l’attenzione specifica ai diritti religiosi, oppure le necessità dei detenuti stranieri che nel 1975, quando fu scritto l’attuale ordinamento penitenziario, erano quasi inesistenti nelle nostre carceri».

Si torna anche a parlare del superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, ma qui sembra che i rischi di un ritorno al passato siano concreti. Condividete questa preoccupazione?

«Diciamo pure che l’emendamento introdotto su questo tema ci fa paura. Ricordiamo che si sta concludendo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari e la loro trasformazione in Rems, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, un lungo percorso per chiudere quelli che erano dei veri e propri manicomi, seppur giudiziari. Ecco, il problema è che adesso troviamo un emendamento che va nella direzione di un loro massiccio uso, perché dice che nelle Rems possono essere mandati anche tutti coloro che sono in misura di sicurezza provvisoria, vale a dire per cui il magistrato non ha ancora valutato, sulla base di perizie psichiatriche, la pericolosità sociale o la possibilità di proscioglimento, e tutti coloro la cui insorgenza di un disagio mentale avviene in carcere, una volta che la pena è stata comminata e sta venendo eseguita. In particolare quest’ultima evenienza è frequentissima, perché il carcere non è un posto dove vivere, quindi se uno si sente depresso, non riesce a dormire, ha problemi di vario genere, gli danno gli psicofarmaci e lo mandano nella Rems. Tra poco avremo di nuovo quei grandi carrozzoni che erano gli Opg: enormi, ingestibili e a vocazione manicomiale, quindi non saranno più quelle piccole case famiglia che speravamo diventassero».

Dall’altra parte viene invece avviata l’estensione delle possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione. Come vi aspettate che venga applicato e tradotto in realtà questo principio?

«Ovviamente guardiamo con favore alla possibilità di aumentare i criteri di accesso e ci aspettiamo che quindi possano, per esempio, aumentare il numero di anni di pena residua e quindi diminuire gli anni scontati dopo i quali è possibile richiedere la misura alternativa. Certo, la valutazione da parte del magistrato di sorveglianza è sempre a carattere individuale, ma è importante che il criterio sia più ampio, perché ormai qualsiasi studio e qualsiasi ricerca ci hanno dimostrato che sono la parte del sistema di esecuzione pena che costa meno allo Stato ed è più fruttifera in termini di recidiva, quindi non si capisce perché non utilizzarli più massicciamente. Detto questo, è sparito dalla prima formulazione del disegno di legge delega il riferimento al 4/bis, cioè a quell’articolo dell’ordinamento penitenziario che proibisce l’accesso ai benefici penitenziari, quindi anche alle misure alternative, per chi ha commesso alcuni particolari delitti, legati per esempio al terrorismo o alla mafia. Mentre prima si ragionava sulla possibilità di allargamento di queste maglie anche per chi è soggetto all’articolo 4/bis, adesso non ci si pensa più e questo fa cadere tutta una serie di cose, per esempio quello che si chiama “ergastolo ostativo”, cioè quel tipo di ergastolo che osta alla concessione di benefici e quindi per il quale tu sai che una volta che ce l’hai morirai in carcere. Ecco, noi speravamo di non vederlo più nel nostro ordinamento, perché a nessuno dev’essere tolta la speranza in eterno, mentre invece resterà».

Nel disegno di legge esiste qualche riferimento all’esperienza lavorativa in carcere, che è uno dei principali strumenti per contrastare la recidiva?

«No, non c’è un criterio di delega specifico su questo, però diciamo che il senso di tutto l’articolo dove è racchiuso è un senso di apertura che immaginiamo venga interpretato anche nella direzione di guardare a questo tipo di attività».

Immagine: via Flickr – Matt B