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Chi siamo noi per temere i rifugiati e migranti?

5083 barchette di carta di diversi colori, una per ogni persona annegata (e ritrovata) nel Mediterraneo nel 2016: è l’installazione che in questi giorni può essere visitata alla Tate Modern di Londra, frutto di un sodalizio artistico e accademico che volutamente vuole far riflettere il pubblico, coinvolgendolo. L’artista Bern O’Donoghue, avvalendosi delle statistiche del Missing Migrants Project dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), l’ha intitolata «Dead Reckoning», letteralmente: contare i morti. Ogni singola barchetta è personalizzata con alcune informazioni sulle relazioni che quell’individuo intratteneva. Se, cioè, era madre, figlio, fratello, sorella o amico di qualcuno, mentre i 12 colori si riferiscono al mese dell’anno in cui sono morti. Scopo dell’artista è quello di «umanizzare» le persone in fuga, di superare la dicotomia del «noi e loro».

La sua opera è affiancata dal lavoro di mappatura «Crossing the Med» (attraversare il Mediterraneo) della ricercatrice inglese Vicki Squire dell’Università di Warwick, che insieme all’artista ha voluto affrontare le paure e le percezioni legate alla «crisi migratoria» proponendo le testimonianze di chi ce l’ha fatta. Sono le storie – da lei raccolte tra la Sicilia e Lampedusa – dei sopravvissuti ai trafficanti senza scrupoli e ai muri della fortezza Europa. Grazie alla mappa interattiva creata per l’occasione, è possibile scoprire i viaggi della speranza di singoli individui: un modo per capire meglio la complessità e le sfide del fenomeno migratorio. Un modo, soprattutto, per superare la «paura del rifugiato».

Il contributo accademico-artistico è esposto fino al 19 marzo al 5° piano della Switch House del prestigioso tempio dell’arte contemporanea, e si inserisce nel più ampio progetto “Who are we?” (Chi siamo noi?) promosso da Tate Exchange. Una sei giorni di eventi, mostre e dibattiti, veicolati attraverso l’arte, la fotografia, il design e l’architettura che vuole mettere al centro la riflessione su concetti come identità, appartenenza, migrazioni e cittadinanza, contando sulla partecipazione attiva del pubblico.

Non è un caso se la proposta di O’Donoghue e Squire è intitolata «Chi siamo noi per temere i rifugiati e migranti?». Vicky Squire, che si è interessata anche del progetto dei «corridoi umanitari» promosso da Federazione delle chiese evangeliche in Italia, Tavola valdese e Comunità di Sant’Egidio, qui punta il dito sugli aspetti prettamente «securitari» dell’attuale dibattito pubblico e politico intorno alle migrazioni. «In generale in Europa predomina l’ostilità verso i nuovi arrivati – spiega la ricercatrice che dei corridoi umanitari apprezza invece l’aspetto relativo all’accoglienza e alla solidarietà che lo caratterizza -. Prevale l’elemento della paura. Chi migra è guardato con sospetto. Addirittura l’umanitarismo è stato declassato ad una pratica troppo buonista ed idealista, che non fa altro che “vittimizzare” chi è in fuga», dice la ricercatrice, che in merito alle politiche migratorie messe in atto fin qui non teme di parlare di «gestione necropolitica dei flussi».

Con la loro proposta artistico-accademica le due donne vogliono insieme offrire strumenti a chi si approccia al fenomeno, invitandolo anzitutto ad esplorare il «chi siamo noi?» e il nostro stesso rapporto verso una «crisi» che ha lasciato che troppe persone fossero inghiottite dalle onde del Mediterraneo.

Immagine di Gaëlle Courtens