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La Scrittura e il fine vita

 “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10b). Ancoraggio primo dell’essere umano a Dio, redenzione ancora più incisiva di quella della giustificazione del peccatore: in questo annuncio Gesù dichiara la meravigliosa giustificazione del nostro esistere.

In questo messaggio evangelico risiede, inoltre, la concreta attuazione della benedizione cosmica di Genesi 1. Il Gesù “buon pastore” giovanneo trascende ovviamente il significato biologico della promessa, ma, allargando l’orizzonte di senso, lo include, dal momento che Egli stesso, il Salvatore, è Parola incarnata.

La riflessione sulla Scrittura ci rende allora accorti su quale sia il significato da dare al termine “vita”.

La vita donata da Gesù è, nella sua qualità, “abbondante”.

Di fronte al supplizio inutile cui obbliga il sopravvivere come corpo straziato dal dolore nel caso di malattia terminale o di malattia incurabile, dove, cioè, sia accertato che ogni via terapeutica per la guarigione risulti impraticabile, la coscienza credente può onestamente rintracciare, nella sopravvivenza sofferente e medicalizzata a forza, l’avverarsi della promessa evangelica?

E similmente, la coscienza laica posta di fronte ad un’esistenza che si è tragicamente oscurata e svilita fino ad essere descritta come : “Dolore, dolore, dolore” (Ultime parole di Dj Fabo), non è colta dal dubbio che il diritto di vivere del paziente non sia, forse, diventato, per imposizione esterna, un crudele “dovere” di vivere?

Chi decide quale sia la soglia oltre la quale il paziente non è più capace di rintracciare lo scopo del suo esistere? Chi decide qual è il punto oltre il quale la vita perde il proprio senso, il proprio valore, tanto da trasformarsi, nel corpo e nell’anima del paziente, in una sofferenza insostenibile?

Ed ecco delinearsi un impedimento verso il riconoscimento pieno della dignità della persona che, a motivo di una legislazione punitiva riguardo l’autoderteminazione del malato, ci obbliga a rivendicare un nuovo diritto-paradosso:” il diritto di morire”.

Non voglio entrare nel merito della casistica etica che riguarda la gestione dei corpi, cioè il distinguo tra “azione” e “omissione” nei casi di eutanasia e suicidio assistito, interruzione di idratazione e nutrizione artificiali ove ritenuti accanimento terapeutico e interventi coadiuvanti la fine della vita nell’ambito delle cure palliative (sedazione profonda, possibilità più teorica che pratica).

Mi chiedo, piuttosto, riflettendo su un tema solo per alcuni versi simile, perché il diritto di morire da parte di un suicida non solo non sia considerato reato ma, anzi, sia riconosciuto come lecita esecuzione della sua libera volontà, e invece, per quanto riguarda un paziente bloccato in un corpo che è tortura e prigione, venga negata e insieme condannata legalmente la richiesta di veder rispettata la sua richiesta lucida e consapevole.

E anche mi chiedo perché, nel caso di rifiuto di trattamento medico (assunzione di medicinale o intervento chirurgico), decisione che comporta il sicuro morire, la volontà del paziente venga rispettata senza scatenare un infuocato dibattito pubblico su questioni etiche.

Mi pare, che al di là del distinguo tra lasciar-morire e uccidere (un crudele sofisma nei particolari casi estremi come quello di Dj Fabo), siano invece, attraverso un fermo rifiuto di accogliere una volontà lucidamente espressa, violati i diritti del malato, ampiamente e senza misericordia . In situazioni così tragiche il medico, dal canto suo, corre il rischio di venir meno alla sua deontologia professionale che lo impegna al servizio dell’essere umano tutto e non solo della meccanica del suo corpo.

Questa coercizione alla vita, quando la vita non la si può più definire tale, ci interroga anche sul modello di società alla quale apparteniamo. Un insieme sociale si costituisce attraverso un patto in grado di legare, in una relazione di reciprocità, l’individuo e la collettività. Questo equilibrio viene meno quando nasce la domanda se è l’individuo a essere funzionale alla collettività o è l’insieme sociale ad essere funzionale agli individui.

Durkheim nel suo ampio studio* sul fenomeno del suicidio, fenomeno già avvicinato con cautela al tema della riflessione, sostiene che è indubbiamente l’individuo ad essere funzionale al gruppo e che il gesto suicida è esecrabile perché, togliendo forza utile, reca un danno alla società. Date queste premesse, la collettività ha il dovere di agire in maniera costrittiva contro la tendenza disgregatrice sempre latente nell’individuo.

Il contratto sociale, secondo questa prospettiva, risulta fortemente sbilanciato a favore del sostegno di un programma sociale ideologicamente virtuoso con tratti fortemente conservatori.

Scrivo questo perché, riguardo la negazione di diversi diritti inalienabili della persona, la nostra società non sembra essersi molto allontanata dalla Terza Repubblica francese del Sociologo.

Una Chiesa che si interroghi su quali percorsi intraprendere per dare una risposta di valore profetico, ha la necessità di riflettere in preghiera. Una preghiera che sia, però, conficcata nella carne dell’umano esistere.

*(E.Durkheim, Il suicidio, Bur 2015 Milano)

Immagine: di Public Domain Pictures