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L’Ungheria è sempre più chiusa

Martedì 7 marzo il Parlamento ungherese ha approvato una nuova legge sulla gestione dei richiedenti asilo, che prevede un atteggiamento molto duro nei confronti di chi attraversa i confini del Paese per chiedere la protezione internazionale. La normativa votata da un’ampia maggioranza parlamentare impone che tutti i richiedenti asilo vengano detenuti in campi profughi gestiti dal governo per tutto il tempo necessario ad esaminare la loro richiesta. Mentre con la legge in vigore fino a pochi giorni fa i richiedenti asilo potevano spostarsi all’interno del paese per continuare il loro tragitto, ora non sarà più possibile. Inoltre, sono stati estesi i termini della detenzione preventiva, che potrà durare oltre le quattro settimane che costituivano il precedente limite. Secondo l’Unhcr, questa decisione viola il diritto internazionale in materia di diritti umani e rifugiati, perché una persona che desidera inoltrare una richiesta d’asilo rischia di essere trattenuta in una struttura governativa per mesi contro la sua volontà.

Con questa decisione, l’Ungheria si conferma uno tra i Paesi meno accoglienti d’Europa per i migranti in fuga dalle guerre del Medio Oriente: due anni fa era stato il muro sul confine serbo a far discutere, mentre nel corso del 2016 sulle 30.000 richieste d’asilo presentate sul territorioungherese soltanto 500 sono state approvate.

Al centro di queste politiche si ritrova sempre la figura del premier ungherese Orbán Viktor, che ha spesso gestito l’immigrazione con un approccio securitario molto duro, considerato da molte organizzazioni internazionali oltre i limiti delle norme europee e internazionali sul rispetto dei diritti umani. Tuttavia, se si guardano i dati è difficile considerare l’Ungheria un Paese “invaso” dai profughi o messo “sotto assedio”, come dichiarato dallo stesso Orbán il 7 marzo. Secondo Aron Coceancig, storico e ricercatore a Budapest, «la rotta balcanica è molto cambiata negli ultimi due anni e anche il primo ministro ungherese Orbán Viktor nel suo discorso del 7 marzo ha sottolineato questo cambiamento».

Quindi almeno per l’Ungheria la rotta balcanica è effettivamente chiusa?

«Non del tutto. Ovviamente, rispetto al 2015 ci sono molte meno persone che cercano di entrare in Ungheria, ma continua ad esserci un minimo flusso. Oggi in Ungheria vengono ammesse legalmente circa 25 persone a settimana, ma si sa benissimo che oggi in Serbia rimangono circa tra le 7.000 e le 8.000 persone che aspettano l’occasione giusta per riuscire a varcare il confine. La situazione è molto meno tesa rispetto al 2015, ma non si è esaurita del tutto, anche perché la situazione in Medio oriente ci dice che questa emergenza potrebbe risorgere nel prossimo futuro».

Anche perché l’accordo con la Turchia ha soltanto allontanato la frontiera, spostandola sempre più a sudest senza però agire alla radice. Questo viene percepito in Ungheria?

«Sicuramente qua a Budapest c’è una maniera di vedere la questione e di pensare a una soluzione della questione migratoria molto diversa da quella che c’è a Bruxelles. Tornando al discorso tenuto da Orbán martedì 7 marzo, lui ha detto senza mezzi termini che l’Ungheria può contare esclusivamente sulle proprie forze per fermare questa onda migratoria e che non solo non deve chiedere aiuto all’Europa o a Bruxelles, ma che l’Europa e Bruxelles sono addirittura istituzioni che si oppongono e rendono più difficile la soluzione che il premier ungherese ha pensato per questa crisi migratoria. Da questo punto di vista la situazione è stabile: l’Ungheria cerca ancora di proporre la sua soluzione, le sue ricette estremamente restrittive e in alcuni casi anche provocatorie, che dal punto di vista ungherese hanno evitato che negli ultimi anni la crisi potesse degenerare, tant’è vero che oggi entrano veramente pochi migranti per chiedere asilo. Ovviamente questo è possibile anche per via dell’innalzamento di una rete lunga centinaia di km, che a breve verrà raddoppiata, e di tutta una serie di regole che secondo numerose organizzazioni umanitarie violano il diritto internazionale».

Possiamo pensare che questo provvedimento serva a rafforzare la posizione di Orbán, che ultimamente aveva raccolto alcune sconfitte?

«Diciamo che la leadership di Orbán ha vissuto momenti migliori. Certo è che questa ultima legge, che prevede la reintroduzione del fermo obbligatorio per tutti i richiedenti asilo, riporta Orbán Viktor in una posizione abbastanza importante nel dibattito pubblico. Diciamo il premier ungherese utilizza nuovamente la carta della migrazione per riconquistare l’affetto di un elettorato che magari è sfiduciato rispetto alle sue politiche, e penso che sia un dato di fatto importante che quest’ultima legge non sia stata votata solamente dal partito di governo, il Fidesz, ma anche dall’estrema destra di Jobbik. Questo non era successo qualche mese fa, quando invece i due partiti si erano trovati su posizioni differenti rispetto al tentativo di modificare la costituzione rispetto alle quote previste dall’Unione europea sui migranti».

A proposito di quote, dobbiamo sempre tenere presente che non sono mai entrate realmente a regime. Vedendo che non si è mai passati all’applicazione di quel modello, l’Ungheria ha modificato la propria posizione nei confronti della Commissione europea?

«No, rimane quella che è sempre stata, ovvero una chiusura totale rispetto all’idea della redistribuzione dei migranti. La posizione ungherese è chiara, e anche nell’ultimo discorso pubblico che ha tenuto, Orban Viktor ha detto chiaramente che i migranti sono il cavallo di troia del terrorismo e che i richiedenti asilo e i migranti mettono a repentaglio l’identità e la tradizione europea. È una posizione provocatoria e promossa con un linguaggio molto forte. Certo è che l’Ungheria va avanti su questa strada di rottura con alcune istituzioni internazionali, e soprattutto con le istituzioni europee, che hanno richiamato più volte l’Ungheria rispetto ai suoi doveri nel rispetto dei richiedenti asilo. Il fatto però è che la posizione di Orbán su questi temi è sostenuta sia da un’ampia fetta della popolazione ungherese, sia da diversi altri partiti nazionalisti e populisti europei».

Se si dovessero introdurre dei meccanismi sanzionatori, possiamo immaginare che questa posizione possa mutare o in questo caso pur di tenere il punto si andrà contro il pragmatismo che spesso caratterizza i leader dell’est Europa?

«È difficile rispondere: Orban Viktor ha dimostrato di essere un leader politico molto pragmatico e di sapersi anche adattare alle situazioni, tanto che, per esempio, non ha mai messo il veto al sistema delle quote in Unione europea, ma ha poi organizzato un referendum in Ungheria per bloccare questo modello. Il fatto è che è difficile capire quelli che saranno i prossimi passi dal punto di vista politico di Orbán Viktor, anche nel caso di sanzioni europee».

Quali sono le ragioni politiche di questa chiusura e rigidità?

«È una situazione in cui alcuni partiti, soprattutto i partiti della destra nazionalista e il governo, hanno puntato molto sulla creazione di una paura diffusa rispetto all’altro in generale, rendendo in un certo senso più facile l’azione di governo.

L’Ungheria è stata invasa da una propaganda feroce sul rischio del terrorismo, sui pericoli che i migranti possono portare nel Paese e questa propaganda ha suscitato paura. Questo sentimento necessita di risposte forti, che il governo ungherese prova a dare, almeno a parole. Attraverso questo circolo vizioso il partito Fidesz riscuote il consenso dell’elettorato ungherese. Per contro però in Ungheria c’è una vera e propria necessità di trovare nuovi lavoratori, tanto che lo stesso Orban Viktor si è espresso più volte sulla necessità di chiamare manodopera dall’estero. Certo, i lavoratori a cui si riferisce Orbán non sono i migranti che provengono dai Paesi a maggioranza islamica, ma sono soprattutto coloro che arrivano dai Paesi del resto dell’Europa, oppure, com’è avvenuto soprattutto negli ultimi mesi, lavoratori stagionali che arrivano dall’Ucraina, che confina con l’Ungheria e che si trova nel pieno della crisi dovuta alla guerra».

Immagine: via Flickr