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8 marzo, una giornata senza le donne

In vista della giornata internazionale della donna del prossimo 8 marzo abbiamo rivolto alcune domande a Gianna Urizio, già presidente della Federazione delle donne evangeliche in Italia, giornalista e attivista per i diritti delle donne.

Negli anni abbiamo assistito a varie forme di retorica intorno alla giornata internazionale della donna. E oggi?

Questo è un 8 marzo rivendicativo. Rifiutiamo le celebrazioni delle mimose regalate gentilmente, per poi ritrovarci per altri 364 giorni l’anno in una dimensione che dice no al lavoro, no alla casa, no alla salute, no agli spazi di parola, no a città a misura di donne, no all’aborto, no al reddito, no agli asili, no al welfare per disabili e anziani. Il problema della maternità e della riproduzione non è una questione femminile, ma di tutta la società. Stessa cosa per il lavoro di cura (retribuito e non retribuito).

Il movimento NON UNA DI MENO ha portato in piazza centinaia di migliaia di donne e ha aderito alla mobilitazione per lo sciopero globale dell’8 marzo 2017. Cosa sta succedendo?

Tutto è partito da un incontro preparatorio a ottobre, con alcune centinaia di donne. Varie tappe, fino a quella di febbraio a Bologna, dove migliaia di donne della piattaforma nazionale si sono rincontrate. Non ho mai visto uno sforzo così coordinato. Per l’8 marzo ci sono adesioni ovunque. Da Napoli a Torino, da Palermo a Milano, da Genova a Venezia, da piccole città. Nemmeno agli albori del femminismo si erano mai viste tante persone, all’epoca eravamo 30.000, 50.000… a novembre scorso eravamo una marea. La stessa questura ha parlato di oltre 200.000 persone.

Se nel lavoro siamo discriminate, nella politica siamo discriminate, siamo discriminate nell’accesso al reddito e quando diventiamo madri, se subiamo violenza, se ci occupiamo gratis di tutti, cosa possiamo fare? Scioperiamo per affermare la nostra forza. L’8 marzo quindi incrociamo le braccia, interrompendo ogni attività produttiva, riproduttiva e anche di consumo.

Una giornata senza le donne, perché se le nostre vite non valgono, allora ci fermiamo. È questo lo slogan?

Sì. Lo slogan è mondiale. 40 Paesi attualmente aderenti, un vero e proprio sciopero generale. E sta accadendo in modo diverso rispetto alla spontaneità del femminismo degli anni ‘70, iniziato in piccoli gruppi di autocoscienza e a partire da sé, per capire le relazioni di potere e il patriarcato, scivolando poi nei racconti e nella filosofia. Ci sono nuove soggettività che si ispirano a vicenda, con obiettivi precisi.

E chi non potesse scioperare?

Ci sono altri modi di aderire, anche per chi non potesse partecipare ai cortei e alle assemblee pubbliche: appendere alle finestre cartelli o simboli con i colori della manifestazione (nero e viola), sciopero bianco, sciopero del consumo. Niente spesa, niente acquisti, niente lavoro domestico, niente lavoro di cura, ma anche adesione simbolica o sciopero digitale.

La violenza sulle donne impoverisce tutti. Ci sono costi umani e culturali, ma anche costi economici. Serve urgentemente una trasformazione radicale della società. Che fare?

La piattaforma sta elaborando una nuova carta contro la violenza sulle donne e il tema è sempre stato trasversale a tutti gli 8 tavoli di lavoro (percorsi di fuoriuscita dalla violenza, legislativo e giuridico, lavoro e welfare, diritto alla salute sessuale e riproduttiva, educazione e formazione, femminismi e migrazioni, narrazione della violenza attraverso i media, sessismo nei movimenti, ndr). A partire dalla convenzione di Istanbul, cui l’Italia si adegua ma che non applica, al potenziamento della rete dei centri antiviolenza senza snaturarli, ci sono molte cose da fare. E che si possono fare da subito.

Negli ultimi mesi le donne si sono mobilitate moltissimo: in Argentina, Polonia, Nuova Zelanda, nelle Marce del 21 gennaio. Una sorellanza globale di movimenti, anche spirituali. Si potrebbe definire un processo di “globalizzazione femminile”?

Il percorso italiano degli ultimi mesi è nato in modo frammentario, dal basso, lo definirei una sorta di neo-femminismo, con una interconnettività impressionante, senza bandiere di partiti e senza patrocini. A livello internazionale, ma anche locale, c’è un’enorme differenza rispetto al passato: l’uso dei social, degli hashtag, la possibilità immediata di accedere a traduzioni e proposte. I nuovi mezzi possono rendere più compatta e visibile una protesta e i suoi contenuti, con trasversalità senza precedenti. Speriamo di globalizzare il rispetto dei diritti e il rifiuto della violenza in tutte le sue forme.