death

Parlare di morte a cena

Apro l’ordine del culto e mi cade tra le mani un annuncio particolare. È un invito a una cena durante la quale si sarebbe parlato della morte. Mi trovo nella First Presbyterian Church di Libertyville, nei pressi di Chicago, Usa. È l’inizio del mio soggiorno con il programma Effe, una bella opportunità di formazione in America per i pastori delle nostre chiese in Italia. La chiesa a Libertyville è molto grande e attiva e noto subito che non sono l’unica incuriosita di fronte a un tale annuncio. Molti si chiedono come si potrà parlare della morte mentre si mangia insieme, ma esitano a iscriversi alla cena per scoprirlo. Neanch’io mi iscrivo subito, ma poi cambio idea e partecipo alla «cena della morte», come viene abbreviata.

L’idea non nasce all’interno alla chiesa. Michael Hebb, un professore di comunicazione, che si è concentrato in modo particolare a indagare l’importanza della mensa conviviale, intraprese un giorno un viaggio in treno. Nel ristorante del treno si ritrovò a conversare con due medici e, come il caso volle, finirono a parlare della morte. La società americana fa fatica ad affrontare il tema della morte e perciò molti non affrontano le questioni a essa correlate: le problematiche di fine vita, ciò che avviene dopo, le questioni relative all’eredità. Come vorrei passare gli ultimi giorni della mia vita? O come potrei sostenere i miei cari nei loro desideri, quando la vita volge al termine? Sono solo alcune delle domande che molti americani, ma forse non solo loro, non si pongono. Michael Hebb scese quel giorno dal treno con un’idea nella testa. Avrebbe organizzato un programma per parlare della morte intorno alla mensa.

Perché proprio mentre si mangia? Perché spezzare il pane insieme crea un’atmosfera speciale, un clima di comunione nel quale si tollerano e si perdonano parole e frasi non riflettute o perfino imbarazzanti. E se si aggiunge un goccio di buon vino la lingua si scioglie ancora più facilmente. Michael Hebb comincia subito a studiare e a provare il suo nuovo concetto e alla fine crea il programma Let’s have dinner and talk about death (Facciamo cena insieme e parliamo della morte). Con l’aiuto della pagina web ogni persona interessata verrà guidata a organizzare una cena a casa propria oppure nella pizzeria a fianco. Certo, non troviamo le ricette per il menu da servire, ma vengono suggerite le domande da condividere insieme al pasto. Il programma ha suscitato molto interesse nelle case di riposo e nei servizi sanitari, ma anche le chiese hanno cominciato a organizzare questo tipo di cene.

Ho partecipato in una di queste cene. È stata un’esperienza profonda e importante. All’inizio c’era imbarazzo, ma poi, lentamente, con le domande poste bene e forse anche con l’aiuto del vino, si è superato l’imbarazzo e si è sviluppata una bella condivisione di esperienze e ricordi intorno alla morte. Si sentiva la gratitudine e l’amore per le persone che hanno toccato la nostra vita e che non ci sono più, ma in qualche modo la loro morte influenza anche il nostro atteggiamento e i nostri desideri per quanto riguarda la fine della vita. Perciò è così importante ricordare e parlarne. Non solo per prepararci, ma soprattutto per vivere meglio qui e ora.

La cena si apre con un brindisi a una persona defunta che ha toccato la nostra vita in modo particolare. Pensandoci adesso, non è stato per caso che, quando è toccato a me, ho brindato alla mia cara amica americana Janet, pastora presbiteriana. La sua morte, infatti, aveva ispirato un libro, pubblicato negli Stati Uniti (Fred Craddock, Joy Goldsmith, Speaking of Dying: Recovering the Church’s Voice in the Face of Death), che invita le chiese ad affrontare il tema della morte, proprio al loro interno, perché in fondo nessuno dovrebbe essere preparato a parlare della morte quanto le chiese, che guardano insieme al Cristo crocifisso e sono consolate dal Cristo risorto.