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La Bosnia-Erzegovina riapre la discussione sul genocidio degli anni Novanta

La Bosnia-Erzegovina si trova di fronte al rischio di una nuova crisi nei rapporti con la vicina Serbia: venerdì 17 febbraio, infatti, il presidente del Paese, Bakir Izetbegovic, ha detto che intende ricorrere in appello contro una decisione della Corte internazionale di giustizia, con sede a L’Aja, che nel 2007 aveva stabilito che non ci fossero prove sufficienti per dimostrare una diretta responsabilità del governo serbo negli atti di pulizia etnica compiuti durante la guerra degli anni Novanta. Izetbegovic è uno dei tre presidenti bosniaci, che ruotano ogni otto mesi e sono rappresentanti dei tre popoli che abitano il paese: uno serbo-bosniaco, uno croato-bosniaco e uno bosniaco-musulmano.

La reazione serba non si è fatta attendere: Ivica Dačić, ministro degli Esteri serbo, ha definito la mossa «molto pericolosa», aggiungendo poi che «la decisione potrebbe destabilizzare non solo la Bosnia-Erzegovina, ma l’intera regione».

La sentenza contro cui Izetbegović ha dichiarato di volersi appellare risale al 2007, e la scadenza per presentare il ricorso è il 26 febbraio di quest’anno. Il caso originale risale al 1993, quando il governo bosniaco di allora, guidato da Alija Izetbegović, padre dell’attuale presidente, accusò Belgrado di stare dietro a un genocidio composto dalle moltissime pulizie etniche portate avanti durante la guerra, che costò la vita a oltre 100.000 persone.

Tuttavia, secondo la Corte internazionale di giustizia, ci fu un solo caso di genocidio, il massacro di Srebrenica, dove circa 8.000 uomini musulmani vennero massacrati dalle forze serbo-bosniache, e inoltre non c’erano le prove per stabilire che la Serbia fosse direttamente responsabile.

«Tutti – affermato venerdì 17 febbraio Izetbegović – devono conoscere la verità, anche chi vi si oppone, e la verità sarà scritta da giudici internazionali, esperti e imparziali».

In opposizione a questo annuncio, i vertici politici della Republika Srpska, una delle altre entità che compongono la Bosnia-Erzegovina, sostengono che una richiesta simile non possa essere portata avanti senza il consenso dei tre presidenti.

Il team legale bosniaco afferma di avere nuove prove, riferendosi in particolare a quelle emerse durante il processo a Ratko Mladić, capo dei serbi di bosnia durante la guerra e responsabile dell’assedio di Sarajevo, durato quasi quattro anni, e del massacro di Srebrenica.

Ne abbiamo parlato con Eric Gobetti, storico specializzato in storia della Jugoslavia.

Il presidente Izetbegović ha parlato di “genocidi”, al plurale. È una scelta corretta del termine per raccontare la verità storica della guerra?

«È difficile da valutare, perché il termine “genocidio” è un termine giuridico ideato per trattare la questione della Shoah al processo di Norimberga in seguito alla Seconda guerra mondiale, quindi è molto legato a quella vicenda storica. Il fatto di scegliere di utilizzarlo dal secondo dopoguerra, per esempio parlando del Rwanda o pensando all’Armenia nella prima guerra mondiale, è una scelta rischiosa per certi versi, però è l’idea di dare una definizione specifica di uno o più tentativi di eliminazione di un popolo identificato in maniera chiara dai perpetratori delle violenze su basi etniche. Questo è quello che vorrebbe l’attuale presidente Izetbegović, che è il figlio del presidente della Bosnia-Erzegovina durante la guerra degli anni Novanta: lui vorrebbe che l’Aia riconoscesse che i serbi durante la guerra degli anni Novanta hanno compiuto dei genocidi e non soltanto dei crimini di guerra».

Riaprire questa vertenza dieci anni dopo la sentenza può portare a qualche risultato utile per la riconciliazione?

«Credo di no. Anzi, penso che al contrario sia un modo per riaprire vecchie polemiche e tutto sommato sono convinto che sia una questione che non porta da nessuna parte. A ben vedere è soltanto una questione meramente simbolica. Certo, le questioni simboliche hanno un’importanza sostanziale dal punto di vista politico, ma dal punto di vista delle vittime, di chi realmente ha vissuto quella guerra e ha perso qualcuno nel conflitto non cambia assolutamente nulla. Penso anzi che adesso ci sia veramente bisogno di andare oltre a queste contrapposizioni, per trovare una forma di convivenza che vada al di là di quello che è stato».

Questo ci dice anche qualcosa sull’organizzazione statale della Bosnia-Erzegovina attuale. Questa rotazione delle cariche vorrebbe essere l’esempio di un modello plurale, ma in realtà porta a variare la linea politica man mano che cambia la guida. Esiste un dibattito sull’efficacia del modello post-Dayton?

«Sì, esiste sia a livello di studiosi sia dal punto di vista politico all’interno della Bosnia. In effetti il sistema di separazione dei poteri in base alle appartenenze nazionali delle entità dominanti, serbi, croati e musulmani, fa parte del sistema ideato a Dayton nel 1995, alla fine della guerra, per pacificare il territorio, ma è un sistema che si è rivelato inefficace nella logica della ricomposizione nazionale. Anzi, ha sortito proprio l’effetto di mantenere separata di fatto la società bosniaca in parti, proprio perché il modello fa sì che l’identificazione nazionale sia praticamente l’unico elemento politico significativo di quel paese. Quindi in qualche modo è un sistema creato per mantenere queste distinzioni».

Uscendo dai confini bosniaci, la crescente forza del nazionalismo in Croazia, attualmente al potere, può andare a inserirsi in questo dibattito e peggiorarlo ulteriormente?

«Sicuramente sì, nel senso che la pressione del nazionalismo croato da una parte e serbo dall’altra sulla Bosnia rimangono molto forti. È chiaro che nel momento in cui nei rispettivi Paesi domina un partito nazionalista, e nel caso croato e serbo governano proprio due partiti nazionalisti, questa influenza si fa più forte e le tensioni in seno alla Bosnia aumentano. Tuttavia il vero problema è interno alla Bosnia, perché certamente le pressioni esterne ci sono, ma il problema è che proprio il sistema politico bosniaco è incancrenito da questa separazione nazionale imposta per legge dal sistema creato a Dayton, un sistema creato a livello internazionale, ideato negli Stati Uniti e creato per mantenere le separazioni nazionali. Credo che se non si trova un sistema per superare questo modello di separazione nazionale non si arriverà mai da nessuna parte, non ci sarà mai la possibilità di un reale cambiamento nella logica della reale convivenza».

Immagine: di Jennifer Boyer, Fredrick, Maryland, USA – FlickrUploaded by Smooth_O, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20504312