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Curdi e cechi, insieme per salvare i luoghi sacri dell’Iraq

Quando, il 10 giugno 2014, la città nord irachena di Mossul fu occupata, l’Isis proclamò che da quel momento i suoi abitanti avrebbero vissuto con «un pacifico e giusto governo islamico e visto quant’era profondamente diverso da un ingiusto governo secolare».

Il risultato di due anni e mezzo di «giusto governo» è stata la fuga di 1,5 milioni di persone, 12.000 morti e la devastazione di una città «che era stata, prima della guerra, uno dei patrimoni di maggior valore del Medio Oriente. I monumenti più preziosi, che un tempo esprimevano il passato multietnico e multireligioso della città, sono caduti vittima del genocidio culturale di Mosul».

Queste parole, che esprimono tutto il rammarico e la consapevolezza per la grave perdita, sono state scritte da un gruppo di archeologi e storici cechi che si sono attivati per salvare il patrimonio culturale del paese.

Il governo regionale del Kurdistan iracheno ha diffuso un rapporto secondo cui nei territori occupati da Daesh sono stati distrutti e saccheggiati i luoghi sacri di tutte le religioni: più di cento, di cui almeno la metà musulmani, soltanto nel territorio conteso fra il Kurdistan e il governo centrale iracheno, il più toccato, dove tra l’altro si trovano le minoranze più colpite dalle barbare persecuzioni dello stato islamico. E lo studio curdo non copre tutto il territorio, ad esempio non è riuscito ad analizzare il centro di Mossul.

Ci sta pensando una squadra di archeologi e storici cechi, che hanno dato il via al progetto Monuments of Mosul in Danger sostenuti dall’Istituto orientale dell’Accademia ceca delle Scienze, per individuare insieme ai loro colleghi iracheni i siti danneggiati tra giugno 2014 e maggio 2016, documentandoli attraverso le fotografie satellitari e creando una mappa interattiva con i dati raccolti.

Il gruppo è già riuscito a individuare 41 monumenti, di cui almeno 16 moschee e una quindicina di tombe di santi e profeti, luoghi di devozione interreligiosa che hanno fatto guadagnare a Mosul l’appellativo di «tomba dei profeti».

La difficoltà, spiegano gli studiosi nel documento di presentazione del progetto pubblicato sulla loro pagina Facebook, sono legati alla limitatezza dei dati, per l’impossibilità di accedere direttamente ai siti ma anche al fatto che il patrimonio architettonico di Mosul non è stato documentato in modo sistematico, a dispetto del suo indiscutibile valore artistico. Di alcuni monumenti distrutti non esistono nemmeno immagini fotografiche né disegni.

La loro attività, segnalata anche dal sito Internet è approdata a una mostra inaugurata pochi giorni fa e aperta fino al 31 marzo alla Galleria di Scienze e arti dell’Accademia delle Scienze di Praga.

La mostra presenta il patrimonio architettonico di Mossul, combinando i risultati della ricerca storica e archeologica con la moderna tecnologia, che ha reso possibile ricreare digitalmente le immagini dei siti distrutti.

Il gruppo, guidato dalla storia dell’architettura Karel Nováček, fa parte della rete internazionale di protezione del patrimonio iracheno Rashid, i cui esperti ritengono che la documentazione delle distruzioni compiute dallo stato islamico potrebbe essere decisiva per processarne i capi. Alcuni terroristi sono già stati condannati nel 2016 per questo dalla Corte penale internazionale, per la distruzione del patrimonio di Timbuktu. Le loro distruzioni possono servire come prova delle loro intenzioni di compiere un genocidio, nella fattispecie contro la minoranza yazida, come ha affermato il Consiglio per i diritti dell’uomo dell’Onu, nel rapporto pubblicato il 15 giugno 2016 intitolato Sono venuti per distruggere (They came to destroy: Isis crimes against the Yazidis).

Moltissime sono state infatti le vittime umane, tra i civili e almeno dieci imam, come documenta ancora la ricerca del governo curdo, che hanno rifiutato di appoggiare Daesh.

Intanto c’è già chi pensa alla ricostruzione: gli yazidi stessi, una minoranza pre-islamica tra le più colpite con più di 200.000 sfollati (circa la metà del totale) e migliaia di morti, hanno perso una quarantina di templi, ma hanno cominciato a risistemare uno dei luoghi a loro più sacri, il tempio di Sharfadin. Consapevoli che ricostruire tutto, purtroppo, non sarà possibile.

Ma, come concludono gli studiosi cechi, «ogni singolo oggetto ritrovato tra le macerie e nei monumenti ancora in piedi potrà restituire almeno una parte dell’originale valore e bellezza».

Immagine: Di 101st Sustainment Brigade, 101st Airborne Division (AA) Public Affairs – https://www.dvidshub.net/image/26682/hatra-fence, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=38784956