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La condanna del ricercatore Ahmadreza Djalali

Il ricercatore iraniano Ahmadreza Djalali ha vissuto tre anni a Novara, dove ha collaborato con l’Università del Piemonte Orientale; nell’aprile del 2016 è stato arrestato nel suo paese d’origine e incarcerato a Evin, a nord della capitale iraniana Teheran, con l’accusa sommaria di spionaggio, per la quale rischia la condanna a morte. Da dicembre il professore è in sciopero della fame per protesta, e la sua storia ha suscitato anche l’interesse di una parte della politica italiana. I Radicali Italiani hanno chiesto al ministro degli Esteri, Angelino Alfano, di convocare l’ambasciatore della Repubblica islamica dell’Iran in Italia per fare in modo che non si proceda con l’esecuzione.

Lunedì 6 febbraio i senatori Luigi Manconi e Elena Ferrara, membri della Commissione per la tutela e la promozione dei diritti umani in Senato, sono stati all’ambasciata iraniana a Roma, per chiedere risposte ufficiali. Ne abbiamo parlato con il presidente della commissione, il senatore del Partito Democratico Luigi Manconi.

Avete ottenuto qualche tipo di risposta in Ambasciata?

«Assolutamente no. Aggiungo che in quella circostanza abbiamo appreso che l’ambasciatore iraniano in Italia avrebbe saputo della vicenda da noi e dai quotidiani italiani. Dunque lunedì mattina alle 11 non era in grado di confermare neppure che Djalali fosse effettivamente detenuto. Solleciterò con la massima urgenza che almeno ci venga data una risposta».

Di che cosa è accusato precisamente Ahmadreza Djalali?

«Qui sta metà del problema: non sappiamo di cosa sia accusato precisamente il professore iraniano. Le informazioni sono frammentarie, parziali e unilaterali: sappiamo che è in carcere e che su di lui pende il rischio concreto dell’esecuzione capitale».

Al di là dell’impegno della commissione, quali strumenti si possono mettere in gioco per la liberazione?

«Abbiamo pochissimi strumenti. Ovviamente io ho avvisato della drammaticità della vicenda il nostro Ministero degli Esteri, ma per il momento ci ritroviamo in una situazione classica, che si verifica in molte circostanze in molti paesi, come per esempio l’Egitto di Al Sisi: nonostante la condizione di amicizia ufficiale tra i due paesi, è difficile avere una discussione schietta e un rapporto franco, ma soprattutto un’interlocuzione effettiva sul tema dei diritti umani».

Dopo l’accordo sul nucleare i rapporti internazionali dell’Iran sono migliorati, ma non si può dire la stessa cosa per la condotta interna al Paese.

«Sì, è come se la questione fondamentale della tutela dei diritti umani, civili e politici, venisse occultata sotto quella che è la normalità di riconquistati rapporti politici, diplomatici ed economici esterni. La questione dei diritti umani scivola all’ultimo posto dell’agenda politica fino a scomparire, mentre l’economia migliora il proprio livello di efficienza».

Venerdi 10 febbraio alle 17 e 30, in piazza Castello a Torino, è stato organizzato un flash mob per chiedere la liberazione del ricercatore.

Immagine: via Facebook