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«L’immigrazione è il Canada»

Il 29 gennaio scorso a Quebec City, nel sud del Canada, si è consumata una strage che ha colpito duramente la comunità musulmana: durante la preghiera serale un uomo è entrato in una moschea e ha cominciato a sparare sui fedeli, uccidendo sei persone e ferendone altre dieci. Secondo Justin Trudeau, primo Ministro del governo federale, si è trattato di «un atto di terrorismo contro i musulmani», di cui ha anche affermato che «sono una parte importante del nostro tessuto nazionale, e questi atti insensati non hanno posto nelle nostre comunità».

Michele Manocchi, già membro dell’associazione Mosaico, è stato ricercatore precario in Italia fino al 2013, quando si è spostato in Canada per ricominciare da zero a costruire una rete universitaria. Oggi lavora con organizzazioni non profit che forniscono servizi ai migranti e ai rifugiati, e racconta quanto questo attentato abbia spaventato e preoccupato una società che si ritrova a dover fare i conti con un odio razziale e religioso che per la prima volta si affaccia sulla sfera pubblica.

 

Su che idea di società è andata a incidere questa strage?

«Prima di tutto è difficile parlare di “società canadese” in generale perché tra le città più grandi e i centri più piccoli ci sono notevoli differenze, però in generale si può dire che in Canada è molto forte la retorica del multiculturalismo, del melting pot, del vivere come una ricchezza la presenza di culture diverse nello stesso luogo. Questa narrazione si basa su fatti reali ed è il fondamento della società canadese, una società davvero giovane nella quale l’immigrazione è stata cruciale e lo è ancora di più, perché loro continuano ad averne bisogno».

 

Come viene gestita l’immigrazione?

«È un modello molto differente da quello europeo; non dico che sia migliore in assoluto, ma anzi lo critico. Qui la selezione degli immigrati è terribile: per riuscire ad arrivare in Canada devi passare attraverso le una serie di passaggi attraverso i quali si porta qui davvero “la crème de la crème”, sia se sei un rifugiato sia se sei un cosiddetto “immigrato economico”. Se si supera questa selezione e si arriva qui si ha una condizione di supporto ben diversa da quella italiana, sia in termini di sostegno statale sia in termini di sostegno da parte della comunità».

 

Ritorniamo al 29 gennaio: come è stato vissuto quell’evento?

«La reazione è stata immediata e potentissima nell’accusare questo evento e nel sottolineare tutti i valori positivi su cui il Canada si basa: il multiculturalismo il fatto di essere tutti fratelli e sorelle e di voler lottare rispondendo con amore invece che con odio. Qui è un discorso davvero molto potente. L’aspetto più critico però è che se si guarda alla quotidianità dei fatti il razzismo, la discriminazione e i “soffitti di cristallo” per le minoranze etniche sono all’ordine del giorno».

 

Questo è dovuto a un aspetto più caratteriale, una diffidenza scritta nel DNA, o perché ci si sente minacciati economicamente?

«È difficile riuscire a individuare un unico modello che possa spiegare tutto, probabilmente è una mescolanza dei due elementi. In questi giorni diverse persone di spicco della comunità hanno ripetuto che c’è molta ignoranza dietro a questi fatti e a queste stragi, si punta il dito anche contro i mass media, e poi c’è la questione Donald Trump, che è stato citato molte volte come uno dei maggiori responsabili del clima che si respira. Qui c’è una concreta paura per quello che Trump sta dicendo e facendo, una palpabile paura: considerate che qui in Canada praticamente tutta la popolazione del Canada vive nei primi 100 km a nord del confine con gli Stati Uniti, quindi di fatto è soltanto una convenzione geografica e stiamo già registrando casi di persone che cercano di lasciare gli Stati Uniti e venire in Canada, stiamo registrando grandi difficoltà con rifugiati che magari avevano solo un passaggio in un aeroporto statunitense per poi arrivare qui, o immigrati che non riescono ad arrivare. Questo ha creato un clima nel quale chi prima si lamentava degli immigrati solo tra le mura di casa ora si sente autorizzato a dirlo anche in luoghi pubblici, dove però se non altro di solito viene immediatamente criticato da altri. Tuttavia c’è un insieme crescente di persone che avevano dentro questa cosa e se la portano dentro da generazioni, odiano gli immigrati scordandosi magari che i loro nonni sono venuti qui dall’Europa nel secolo scorso, e la ripresa di questi messaggi porta sempre più persone a considerarli accettabili, cosa che in passato non sarebbe mai successo».

 

Nonostante i messaggi d’odio, è importante tenere presente che l’immigrazione è una sfida ma non un problema. Lo pensano anche i canadesi?

«Ti rispondo con qualche esempio: la mentor del mio primo lavoro era una donna musulmana che arriva dall’Egitto, che è una manager di una serie di programmi e ha un dottorato in Egitto e uno in Canada, quando esco di casa per portare le mie figlie a scuola vedo donne velate girare su automobili di alto profilo, l’attuale direttore dell’organizzazione nella quale lavoro arriva dalla Romania e potrei continuare. Qui l’immigrazione non è una sfida, qui l’immigrazione è il Canada. Siamo tutti immigrati e questo si vede dappertutto. Stare qui mi ha dato la concreta sensazione che in Italia trattiamo gli immigrati non alla pari, e questo è abbastanza ovvio, ma anche che non vediamo per niente la loro ricchezza e le capacità che portano in Italia. Abbiamo una diversa immigrazione, però è vero che qui come immigrato vieni visto per quello che porti e non per quello che porti via, al contrario dell’Italia».

 

Come funziona il permesso di soggiorno?

«Una volta che entri in Canada per rimanerci diventi un newcomer, si ottiene immediatamente lo status giuridico della Permanent residence, che ti dà accesso a tutti i servizi e che di fatto è una pre-cittadinanza. Le forme di soggiorno temporaneo sono limitate, non sono ben viste e il passaggio da una situazione temporanea a una stabile è alquanto difficile: se tu entri come lavoratore temporaneo dopo un po’ te ne devi andare. È la situazione nella quale mi trovo io adesso. Quando entri qui è perché entri già con un permesso di soggiorno di lungo periodo, praticamente infinito, e diventerai cittadino canadese, è molto più facile e veloce. Forse è anche per questo che i canadesi vedono gli immigrati come persone che portano cose, più che persone che rubano servizi».

 

Si è parlato di tanto in tanto dei corridoi umanitari messi in piedi dal Canada, che hanno permesso a oltre 30.000 persone di arrivare in sicurezza nel Paese. Quali strumenti vengono messi a disposizione di chi arriva lì con lo status di rifugiato?

«Esattamente come per chi entra per lavoro, si ottiene immediatamente la Permanent residence, perché la selezione arriva prima, nei campi profughi. Ecco, il problema sta lì, perché in quei luoghi non c’è la possibilità di controllare quello che avviene come ci sarebbe invece se le cose avvenissero direttamente in Canada. Oltretutto se lasciamo da parte il caso siriano, che è del tutto originale per la storia canadese, visto che non è mai successo prima che si gestisse una situazione come quella, il sistema classico è che si sta nei campi per due, tre o quattro anni prima di riuscire ad arrivare in Canada come rifugiato e poi come Permanent resident».

 

Invece una volta arrivati in Canada cosa succede?

«Una volta che si arriva qui come rifugiato si ottiene tutto il supporto necessario, anzi: per i primi quattro mesi il sostegno è davvero totale, e va dalla casa ai soldi e al cibo. Poi, per tutto il primo anno si continua a essere seguiti da persone che ti orientano in città, nella ricerca del lavoro, della casa, nell’apprendere la lingua, casa, e anche dal punto di vista sanitario si ottiene una copertura totale. Dopo il primo anno è possibile continuare a ricevere una serie di servizi, via via sempre di meno, che sono più che altro servizi di orientamento, si ottiene un sussidio per un certo periodo che dipende dalla propria condizione, da quanto ci si impegna a trovare un lavoro, quindi è una cosa che vieni giudicata di caso in caso, però il supporto ai rifugiati è veramente importante».

 

Si tratta di un modello sostenibile?

«Diciamo che funziona, soprattutto perché lascia pochissime persone per strada, ma il fatto è che si basa su numeri che sono decisamente piccoli: bisogna considerare che London, dove vivo io, è una città di circa 380.000 abitanti, e in media i rifugiati che arrivavano erano 200 ogni anno, una dimensione decisamente facile da gestire, mentre nel 2016 sono arrivati 37.000 siriani in Canada, 1.600 solo qui a London, numeri che hanno rischiato di mettere in crisi il sistema, che non era pronto a gestire questa dimensione e non è stato sostenuto a dovere dal governo, che pure aveva promesso il massimo dell’impegno. Tuttavia, la professionalità degli operatori in prima linea è molto elevata, qui come in Italia, e quindi la situazione si è risolta e la crisi è rientrata».

 

Il sistema canadese non è perfetto ma funziona, in un’epoca ricca invece di esempi negativi e di vittorie di populisti che predicano la chiusura dei confini. Il premier canadese Trudeau sembra invece seguire tutta un’altra strada. Secondo lei in Canada si rischiano sorprese in futuro?

«Diciamo subito che siccome vivo qui, spero che il sistema canadese resista. Tuttavia non sono tutte rose e fiori: Trudeau è molto bravo a vendere bene le sue azioni, ma se guardiamo al riscontro concreto queste sono un po’ indietro rispetto all’agenda che aveva promesso. Il malcontento inizia a salire perché non sta facendo tutto quello che aveva promesso e non tutto quello che sta facendo sta andando davvero bene. L’accoglienza dei siriani è stata un’enorme vetrina, molto ben confezionata, ma non mancano gli aspetti controversi. Per esempio ci sono diverse testimonianze da parte di chi lavora con i rifugiati e che raccontano che proprio accanto ai rifugiati siriani, accolti da Trudeau con baci e abbracci all’aeroporto, ci sono storie di migranti arrivati dal Corno d’Africa nello stesso momento e nello stesso aeroporto che sono stati completamente ignorati.

Detto questo, Trudeau è sicuramente meglio del predecessore, perché Stephen Harper aveva fatto una serie di disastri sui rifugiati e non solo, assolutamente ingestibili anche in termini di diritti umani, quindi è sicuramente un primo Ministro positivo, una grande ventata di positività, però ci sono dei problemi strutturali che sono difficili da risolvere e che sono delle sfide per lui e per i suoi.

Quello che vedo qui, anche per rapporti diretti con membri del governo e del Parlamento, è che c’è una grande volontà di fare: parli con un politico oggi e in due settimane arrivano email o telefonate direttamente dal ministero, connesse al dialogo che si ha avuto, si muove qualcosa, e per un italiano vedere che le cose si muovono è incredibile.

Insomma, anche se le sfide non mancano, non credo assolutamente che qui ci siano le basi per avere un Donald Trump canadese».

Foto:Flickr:  Canada flag on CNE. Taken in Toronto, December 21, 2006