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La Russia e le percosse non gravi

A fine gennaio la Camera bassa del Parlamento russo ha approvato in terza lettura un provvedimento che depenalizza le cosiddette “percosse non gravi” in famiglia, prima punite fino a due anni di reclusione. La legge dovrà ancora passare dal voto della Camera alta e dall’approvazione del Cremlino. Che cos’è una percossa non grave? Secondo il provvedimento la violenza non deve essere abituale, quindi non ci devono essere state denunce nei 12 mesi precedenti, e non ci devono essere danni fisici, nemmeno temporanei.

Chi si occupa di violenza domestica sa però che la denuncia del violento a cui si è legati è tutt’altro che facile: «non si denuncia per l’affetto o per l’amore che si prova per chi esercita violenza – ricorda Dora Bognandi, presidente della Federazione delle Donne Evangeliche in Italia – o per evitare problemi e ritorsioni ulteriori, sia per i figli, sia per non amplificare il problema e farlo arrivare ai familiari o ai colleghi, e a volte le autorità religiose non aiutano. Ma in questo modo chi è vittima lo sarà sempre di più e il carnefice ne uscirà legittimato». La legge è stata votata da 380 membri della Duma e ha avuto un largo appoggio dei conservatori, ma non ha impedito di aprire la discussione sul messaggio che questa scelta porta con sé.

Come ha reagito a questa scelta della Duma?

«Quando ho letto questa notizia a fine gennaio ho provato sconcerto, e questo sentimento aumenta nel momento in cui si approfondisce il tema. Questa è infatti una legge sostenuta da donne e proposta direttamente da una donna e ha raccolto 380 voti favorevoli in terza lettura, a fronte di soli 3 voti contrari. Mi chiedo perché questo consenso, in un paese dove i femminicidi sono molti e dove la violenza domestica costituisce il 40% dei reati. Che segnale lancia una legge simile? Il 97% delle violenze domestiche in Russia non arriva a processo, perché le donne non hanno fiducia che possano essere ascoltate o aiutate. Questo aumenterà ancora di più, le donne saranno ancora più silenziose, così come le famiglie, i vicini e forse anche le chiese. Allo stesso modo, anche i figli continueranno a subire e ad assistere. Da una parte assimileranno un certo tipo di comportamento violento, dall’altra cresceranno nella paura».

Forse il problema della violenza si percepisce in modo diverso?

«La cultura generale incide molto sulla percezione del problema: non dimentichiamo ciò che succedeva in Italia quando gli “scappellotti” giravano più facilmente, a casa e a scuola. Alcuni decenni fa poteva succedere anche questo, ma ciò non significa che la sensibilità al problema della violenza non debba crescere. Qui invece siamo di fronte a una regressione: chi ha proposto la legge ha detto che nella cultura tradizionale le relazioni tra padre e figlio sono costruite sull’autorità dei genitori e le leggi devono sostenere queste tradizioni. Non c’è quindi la volontà di comprendere certi fenomeni di violenza e la loro pericolosità, né di cercare di prevenirli. C’è soltanto il desiderio di mantenere lo status quo».

Perché le chiese ortodosse hanno difeso questo provvedimento?

«Non mi meraviglia molto che le chiese siano contente di un provvedimento di questo genere perché tendono a voler mantenere l’ordine costituito; l’autorità dura ne è un sintomo. Tuttavia, l’educazione non si impartisce con la violenza e in questo caso anziché punire chi la esercita sugli altri si puniscono invece i più deboli, legittimando i primi.

Come si ribalta questo modello?

«Focalizzando il problema, mettendolo all’ordine del giorno, ognuno secondo le proprie competenze, dallo Stato alle famiglie, dalle chiese alle istituzioni educative e così via. Se si focalizza un problema, poi lo si affronta. L’esempio dell’Italia si vede: qualche decennio fa la donna era rappresentata solo come una velina sui media, mentre le donne con responsabilità non comparivano. Quando si è parlato del problema le cose sono cambiate, pur senza raggiungere chissà quali vette, eppure la differenza si vede. Le chiese, devono combattere insieme la piaga della violenza, capendo come affrontarla all’interno delle comunità, perché lì spesso si formano le famiglie. È necessario fare formazione, informazione, sensibilizzazione e proporre iniziative anche mirate verso gli uomini. Quando le donne si sentono sole e sanno che una denuncia può provocare una reazione negativa nei loro confronti, tendono a chiudersi. Ma se sanno che c’è qualcuno che le ascolta e le aiuta, non si sentono più isolate e sono portate a reagire. Per il bene loro, dei figli e di tutta la famiglia».

Immagine: via Pixabay