putin

Siria, il “cessate il fuoco” non basta

Mercoledì 8 febbraio dovrebbero ricominciare a Ginevra i negoziati per porre fine alla guerra in Siria, che dura ormai da 6 anni e ha provocato centinaia di migliaia di vittime civili, oltre a milioni di profughi e sfollati. Il condizionale è d’obbligo, perché la situazione internazionale è in rapida mutazione e non sembra andare nella direzione di un dialogo occidente-oriente in grado di produrre risultati. Proprio per questo, è importante valutare anche i risultati degli incontri a carattere regionale, come quello organizzato dalla Russia che si è tenuto la scorsa settimana ad Astana, la capitale del Kazakhstan.

Cominciato con un clima teso il 23 gennaio, il vertice ha visto un accordo tra la Russia, l’Iran e la Turchia per assicurare il rispetto del cessate il gioco e prevenire la ripresa delle violenze, e si è concluso con un comunicato congiunto nel quale si sostiene la necessità della partecipazione dei gruppi dell’opposizione armata siriana ai negoziati di Ginevra dell’8 febbraio. Tuttavia, il comunicato non è stato sottoscritto dai ribelli, che propongono un diverso meccanismo di “cessate il fuoco”. Secondo Lorenzo Trombetta, corrispondente per l’Ansa dal Medio Oriente e fondatore del sito di informazione SiriaLibano, «Non si è pronti per una conferenza di pace, non si è mai pronti».

L’incontro avvenuto ad Astana ha avvicinato la prospettiva di una pace?

«No. La situazione tra le parti coinvolte nel conflitto in Siria appare distante almeno quanto prima dell’incontro di Astana. Al tavolo in Kazakhstan sono soltanto state definite delle intese tattiche e militari per “congelare” le linee di demarcazione, fare in modo che le trincee attualmente presenti sul territorio siriano continuino a dividere le varie zone d’influenza. Insomma, non si è trattato di una conferenza, nemmeno preparatoria, per affrontare i nodi politici che poi sono alla base delle divergenze e delle distanze.

E questi verranno affrontati prima o poi?

«Questo è l’approccio della mediazione delle Nazioni Unite, l’impalcatura della conferenza di Ginevra. Ecco, se l’8 febbraio, la data annunciata dall’inviato dell’Onu Staffan de Mistura, verrà confermata, se le parti dovessero quindi incontrarsi a Ginevra la prossima settimana, in qualche modo dovremo comunque ripartire da zero».

Insomma, questa conferenza è stata un modo per la Russia per ribadire la sua importanza nell’area?

«Sì, anche perché ad Astana, oltre a mancare diversi attori importanti, le parti siriane hanno avuto il ruolo di semplici comparse, mentre i veri protagonisti sono stati gli attori regionali e in particolare la Russia, l’Iran e la Turchia. Riassumendo: la Russia ha organizzato la conferenza, l’Iran l’ha benedetta, la Turchia l’ha appoggiata. Come sappiamo, dopo il fallito golpe dell’estate scorsa Ankara è rientrata nell’orbita russa in maniera assai più convinta di prima e questa dinamica ha anche fatto sì che la Turchia sia oggi nel terzetto delle potenze regionali e internazionali che hanno più da dire di altre sul conflitto siriano. In Kazakhstan queste tre parti hanno sancito un’intesa, una convergenza di interessi senza precedenti sul conflitto siriano».

A parte la Russia, chi sta traendo più vantaggi da questa situazione?

«Ognuno cerca di raccogliere vantaggi, ma è l’Iran a far fruttare in questa fase la sua presenza pluridecennale in Siria, che è militare, politica, diplomatica ed economica. Sin dal 2012, quando è intervenuto a difesa del regime siriano, prima indirettamente e poi in maniera esplicita, l’Iran sapeva di investire risorse umane ed economiche che avrebbero fruttato anni dopo, cioè in questo periodo. Meno di due settimane fa il premier siriano Imad Khamis si è recato a Teheran per concludere cinque importanti accordi economici e commerciali. Tra questi ce ne sono almeno due molto interessanti. Il primo riguarda i fosfati: la Siria, infatti, è uno dei principali produttori ed esportatori dei fosfati nella regione, e ora la sua gestione passa in mano iraniana. L’Iran si è assicurato anche l’ingresso nel lucroso campo della telefonia cellulare in Siria: finora le compagnie di telefoni cellulari in Siria erano di fatto gestite o direttamente o indirettamente da uomini legati al governo siriano, mentre adesso la nuova società sarà direttamente legata a un consorzio iraniano che fa capo ai pasdaran iraniani, ai guardiani della rivoluzione, che rappresentano al tempo stesso un potere militare ed economico».

Si tratta quindi soltanto di vantaggi economici?

«Ci sono numerosi segnali, confermati sul terreno, di proselitismo culturale e religioso che l’Iran sta portando avanti in aree a maggioranza sunnita e al limite fra zone sunnite e zone di altre comunità. In qualche modo si registra un’espansione iraniana sciita che è sia culturale sia confessionale. Inoltre l’Iran si è assicurato, grazie a un paio di decreti presidenziali di Bashar al-Assad, l’acquisizione di terreni in zone chiave alla periferia di Damasco. Visto che il prossimo decreto in discussione in Parlamento a Damasco è quello per la ricostruzione di Homs e Aleppo, Teheran potrebbe assicurarsi anche dei terreni in posizioni chiave nelle due città siriane teatro dell’insurrezione e distrutte dal conflitto. Si tratta di uno scenario in cui nelle zone controllate dal governo siriano l’Iran sembra avere un ruolo nel presente e nel futuro molto rilevante».

Lei ha citato Aleppo e Homs, luoghi dai quali provengono moltissimi rifugiati che arrivano in Europa o si fermano in Libano e Turchia. In questa fase le violenze in quelle città continuano?

«L’incontro di Astana viene dopo il raggiungimento della tregua del 30 dicembre scorso. Da allora la quantità di bombardamenti e le violenze nelle zone contese tra governo e opposizione è diminuita drasticamente. Si parla addirittura di una diminuzione del 70%, un dato che non dice moltissimo ma che è in realtà indice di una diminuzione molto significativa. Insomma, nonostante la tregua formalmente non regga in tutti i territori, possiamo dire che i civili nelle zone in cui si combatteva sono meno esposti alla violenza rispetto a prima. Questo è un dato positivo».

Potrebbe aprirsi la prospettiva per un ritorno a casa di alcuni profughi?

«Diciamo che per ora si scappa di meno dalla violenza, però comunque si è costretti a fuggire dall’assenza di prospettive economiche e dall’assenza di servizi, come acqua ed elettricità, che sono delle calamità di grande portata tutti i giorni, ma si scappa di meno da bombardamenti. Il fatto è che questo riguarda soltanto alcune zone, ma gli altri conflitti sono ancora in corso.

Per i civili, il fatto che alcuni tra gli attori più importanti abbiano deciso per il momento di non spararsi, ha una caduta sicuramente positiva, ma sul lungo termine è difficile dare delle prospettive: chi è sottoposto a violenze da almeno cinque anni è costretto vivere alla giornata».

Immagine: en.kremlin.ru