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Un anno senza verità

Sono trascorsi 12 mesi esatti dal 25 gennaio 2016, dalla scomparsa al Cairo del ricercatore italiano Giulio Regeni, il cui corpo verrà poi ritrovato il 3 febbraio 2016 alla periferia della capitale egiziana. La ricostruzione della verità, difficile e accidentata, ha fatto emergere che la scomparsa è stata in realtà un rapimento, seguito da giorni di tortura e infine dall’uccisione.

«I frammenti di verità che stanno emergendo ora – racconta Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia, sin dall’inizio al fianco della famiglia Regeni – sono sempre molto meglio delle numerose piste false che soprattutto all’inizio, ma anche recentemente, sono state presentate». Di fronte alla morte di Giulio, infatti, il regime egiziano di Abd al-Fattah al-Sisi ha opposto ogni forma di resistenza, depistaggio e negazione della verità, provando a proporre prima la strada del delitto passionale, poi cercando di far passare la tesi di un’aggressione qualsiasi, opera di criminali comuni. Infine, ha indicato falsi colpevoli per allontanare le responsabilità dei vertici della polizia e dei servizi segreti.

Nelle ultime settimane è poi emersa un’altra versione, quella secondo cui sarebbe stato il capo del sindacato degli ambulanti, Mohammed Abdallah, a denunciare Regeni, agendo da informatore di alcune “mele marce” degli apparati statali, che avrebbero concepito e realizzato il crimine alle spalle della polizia. Una tesi che parte da una certezza, il “tradimento” del sindacalista, «ma quello di cui abbiamo bisogno – prosegue Marchesi – è una verità piena, che coinvolga tutti i responsabili e non solo i pesci piccoli. Quello che noi temiamo è che con la teoria delle “mele marce” si dica che alcuni agenti hanno preso l’iniziativa senza che vi fosse un’organizzazione, una pianificazione, un coinvolgimento dei vertici o quantomeno dei funzionari di rango più elevato dell’apparato egiziano, cosa che sembra poco plausibile e poco compatibile, sia con la dinamica del caso specifico, che con la prassi egiziana dell’ultimo anno».

Il ruolo dei sindacati nella vicenda Regeni è molto delicato, perché la repressione messa in atto dal regime egiziano è stata durissima, e non ha risparmiato l’opposizione nel campo delle professioni. Secondo i dati raccolti da Amnesty International, dall’estate 2015 all’estate 2016 la sparizioni forzate sono state 912, quasi tre al giorno, smentendo la tesi portata avanti dal presidente egiziano al-Sisi, che ha sempre parlato di un caso isolato.

La storia di Giulio Regeni racconta molto anche sull’Egitto di oggi, a 6 anni esatti dalla rivoluzione di Piazza Tahrir. Che Paese è diventato?

«Premetto che come Amnesty il nostro compito è di puntare il dito sulle violazioni dei diritti umani, quale che sia il tipo di regime che le commette. Nell’Egitto attuale le sparizioni forzate, seguite dalla tortura e in alcuni casi, come per Giulio Regeni, con la morte, sono molto frequenti, e interessano in larghissima maggioranza cittadini egiziani. Il caso di Regeni in qualche modo serve a gettare luce anche sulla sorte di tante altre persone di cui altrimenti si saprebbe poco o nulla, quantomeno in Italia. Purtroppo anche le organizzazioni non governative egiziane, che molto coraggiosamente denunciano questo stato di cose, sono a loro volta oggetto di intimidazione, arresti e attività repressiva, per cui siamo al fianco della famiglia Regeni e di chi coraggiosamente in Egitto continua ad opporsi alle violazioni dei diritti umani».

I genitori di Giulio Regeni, Paola e Claudio, sono un esempio di dignità e di forza in questa storia che di modelli positivi ha un gran bisogno. Loro credono ancora nella verità?

«Sì, certo, esattamente come ci crediamo noi. Le iniziative di oggi servono anche a dire che non ci siamo stancati di chiederla. Oggi siamo alla Sapienza a Roma, che ci è sembrata anche una sede opportuna in quanto luogo universitario, perché Giulio era un ricercatore, e siamo qui con tutti coloro che ci sono stati vicini, in collegamento con la famiglia Regeni da Fiumicello per fare in modo che non cali l’attenzione dell’opinione pubblica e per fare in modo anche che il governo italiano continui a esercitare pressione».

A questo proposito, come si sta ponendo il governo italiano in questi ultimi mesi?

«Mi pare che ci sia una gran voglia di normalizzazione dei rapporti. Noi speriamo vi siano presto le condizioni per farlo, ma al momento gesti come il ritorno dell’ambasciatore al Cairo sarebbe sicuramente prematuro.

Teniamo conto del fatto che c’è un’inchiesta italiana, che è giusto che ci sia perché Giulio era cittadino italiano e quindi si applica il criterio della nazionalità della vittima, ma questa dipende dalla collaborazione giudiziaria dell’Egitto, perché i nostri investigatori non possono raccogliere informazioni in maniera autonoma sul territorio egiziano. Insomma, è fondamentale che le autorità egiziane collaborino ed è per questo altrettanto importante che il governo italiano continui ad esercitare la pressione più forte possibile affinché questo avvenga».

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