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Dopo dieci anni i palestinesi potrebbero tornare a votare?

Nel 2017 in Palestina ricorre un triste anniversario, quello di un intero decennio senza la possibilità di andare a votare per il rinnovo degli organi politici e rappresentativi. È dal 2007, infatti, che tra i due principali partiti palestinesi, il pragmatico Fatah e il radicale Hamas, bloccano ogni tentativo di accesso al voto andando avanti a colpi di ricorsi in un conflitto a bassa intensità che danneggia la popolazione e conserva le élite.

Tutto cominciò, o per meglio dire esplose, nel 2006, quando Fatah non riconobbe la vittoria elettorale di Hamas e rimase al potere senza la legittimazione del voto popolare, ma soltanto grazie al sostegno della comunità internazionale. In risposta a quel gesto, Hamas prese il controllo della striscia di Gaza con un atto unilaterale, conservando il potere fino a oggi.

Nel frattempo però le condizioni di vita in Palestina continuano a peggiorare, e la grave carenza di energia elettrica degli ultimi mesi a Gaza è uno tra i tanti segni di una situazione ormai insostenibile.

Se Hamas piange, sicuramente anche al-Fatah, che controlla l’Autorità Nazionale Palestinese, non ride. In quella che la comunità internazionale chiama West Bank, il ricambio generazionale tarda ad arrivare ed è evidente la difficoltà di individuare una strategia che possa rompere una situazione che si trascina senza prospettive.

A rompere questo stallo potrebbe però essere una firma, quella apposta a Mosca martedì 17 gennaio su un accordo tra i governi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza per mettere in secondo piano le loro differenze e formare un governo di unità nazionale per poter tenere finalmente le elezioni, finora sempre rinviate.

Se tutto andrà secondo quando indicato nel documento, firmato grazie alla mediazione del presidente russo Putin e del ministro degli Esteri Lavrov, l’Autorità nazionale palestinese e il gruppo militante Hamas formeranno un nuovo Consiglio Nazionale che includerà anche la diaspora palestinese e si andrà finalmente al voto. Azzal al-Ahmad, portavoce di Fatah, ha annunciato che «entro 48 ore» si chiederà al presidente dell’Anp Mahmoud Abbas «di lanciare consultazioni per la creazione di un governo». Eppure la fiducia tra chi vive in Palestina non è così grande. Luigi Bisceglia, rappresentante del Vis, Volontariato Internazionale per lo Sviluppo, in Palestina e presente da anni sul territorio, racconta che «tutti noi, sia i colleghi palestinesi sia gli il personale espatriato, abbiamo accolto la notizia con un sorriso scettico».

Siamo di fronte a una svolta nella gestione del potere in Palestina?

«Difficile dirlo: è l’ennesimo tentativo che Hamas e Fatah hanno fatto per provare a trovare un accordo e nel frattempo sono passati dieci anni dalle ultime elezioni politiche e tra i due partiti i problemi sono stati moltissimi. C’è sicuramente un elemento positivo: in questo incontro a Mosca i due partiti principali hanno impiegato soltanto tre giorni per trovare un accordo per il quale si è dovuto attendere dieci anni, e ora dovrebbe essere possibile convocare un nuovo Consiglio nazionale che comprenderà i rappresentanti di Fatah e Hamas e alcuni personaggi di spicco che sono in esilio».

Ora cosa ci dobbiamo attendere?

«Non sappiamo dove ci porterà questo accordo e soprattutto se ci saranno le condizioni politiche per avere una nuova elezione del presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Abu Mazen è entrato nel tredicesimo anno di presidenza di un mandato che doveva durarne quattro e sta per compiere 82 anni, eppure non sappiamo nemmeno se rimarrà lui alla guida oppure se coopterà qualcun altro, o ancora se sarà finalmente la popolazione palestinese a eleggere un successore.

Sicuramente qui nessuno si è scomposto: nessuno ci crede più di tanto e quella dei due partiti era un’esigenza, perché le condizioni a livello internazionale sono cambiate, visto che, per esempio, non sappiamo cosa farà il nuovo presidente statunitense, Donald Trump. Personalmente non credo a tutte le battute e boutade che si sono sentite durante questo periodo di “interregno” tra lui e Obama. Quel che è certo è che Trump e il premier israeliano Netanyahu sono amici, per cui ci si può aspettare un supporto più forte e significativo a Israele. Ecco, se i palestinesi in questa fase saranno almeno uniti, forse sarà meglio per tutti».

Il fatto che l’accordo non sia arrivato a Ginevra o a Vienna ma a Mosca ci dice che la geografia dell’influenza sul Medio Oriente sta cambiando?

«Certamente sì. Qui si può parlare di vero e proprio putinismo, e non vale solo per i palestinesi, ma anche per i siriani o per i libanesi. Tutti pensano che la Russia possa giocare un ruolo determinante per creare un nuovo equilibrio all’interno della regione. Credo però che qualunque cosa Putin faccia non sia disinteressata, anche se sta ottenendo dei risultati, il che ha fatto in modo che molte persone siano a favore del presidente russo, considerato competente e in gamba. Nonostante il ruolo giocato in questa fase, Putin sta completamente dalla parte di Israele, che quindi non ha nessun tipo di timore, avendo anche eccellenti rapporti con le comunità ebraiche in Russia. Quel che è certo è che in questo momento, con un Trump che vuole avere posizioni isolazioniste, sembra che la Russia stia sostituendo gli Stati Uniti come potenza che può creare un nuovo ordine nella regione».

Il governo di unità nazionale potrebbe portare alla presenza di Hamas in Cisgiordania e a quella di Fatah nella Striscia di Gaza. Chi rischia di più?

«Non c’è nulla di scontato, ma in realtà in un eventuale governo di unità nazionale i membri di Hamas che siederanno saranno indipendenti: nessun nome darà davvero fastidio alle autorità israeliane o ai membri di Fatah, anche perché non saranno figure di spicco. Dall’altra invece mi chiedo se Fatah potrà davvero contare qualcosa nella Striscia di Gaza: i suoi membri avranno sovranità e autorità?»

Immagine: via Flickr