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Non basta una foto

C’è voluta la foto del cadavere del piccolo Mohammed, riverso sulla spiaggia, affogato mentre con la famiglia tentava di attraversare il fiume Naf al confine fra Myanmar e Bangladesh, perché il dramma del popolo Rohingya trovasse spazio nei telegiornali nazionali e internazionali. Ma al contempo non è bastata la stessa foto perché la commissione d’inchiesta, incaricata dal governo birmano di indagare su eventuali abusi commessi sulla minoranza Rohingya, ammettesse responsabilità delle forze di polizie nelle violenze sistematiche da essa patita. Il rapporto finale è atteso per fine gennaio, ma in una conferenza stampa nei giorni scorsi i portavoce della commissione hanno affermato di non aver al momento riscontrato alcuna prova di abusi o peggio negazione di diritti umani ai loro danni.

Rischia questa di essere una pietra tombale che mette in dubbio la sopravvivenza stessa di un popolo. Una volta che un organo nominato dallo Stato avrà accertato che la situazione è tutta rose e fiori, sarà arduo trovare canali diplomatici per rimettere al centro dell’attenzione il dramma di questo milione circa di persone, di fede islamica, apolide in due patrie, senza diritti né civili né politici, vittima di espropri coatti e controllo sistematico.

Secondo le Nazioni Unite sono circa 120mila le persone internate in 40 campi di raccolta in Myanmar, mentre sarebbero oltre 160 mila le persone che dal 2012 hanno lasciato il paese in direzione del Bangladesh, della Malesia, della Thailandia.

La commissione è stata istituita su deliberazione del premio Nobel per la pace e figura carismatica della nazione Aung San Suu Kyi, che da più parti è criticata per non aver mai preso posizione alcuna sul tema specifico. E’ la composizione stessa della commissione che suscita però molte perplessità: alla guida vi è infatti Myint Swe, uno dei tanti ex generali ancora legati a corda doppia all’antico regime militare che nel paese ha imperversato per anni. Le prime conclusioni come detto non lasciano presagire segnali di presa in carico del dramma Rohingya: il testo cita la presenza di moschee e edifici religiosi quali prove di corrette politiche di integrazione, mentre sempre più numerose organizzazioni internazionali denunciano l’impossibilità di visitare in alcun modo la regione e raccolgono le drammatiche testimonianze dei disperati in fuga. Come la famiglia di Mohammed, che la stampa ha frettolosamente paragonato al piccolo Aylan, in una macabra casistica fatta più di slogan che di reale costernazione. Solo nel settembre scorso d’altro canto anche da queste colonne avevamo raccontato di come in realtà il governo birmano fosse pronto ad avvallare una norma che, con pretese urbanistiche, avrebbe messo a rischio la sopravvivenza di centinaia di edifici di culto e studio della religione islamica. Il governo birmano ha bollato come falsa la fotografia, che sarebbe figlia della propaganda, di chi e perché non è dato saperlo.

Intanto da inizio ottobre, quando le violenze sono riprese con particolare intesità, si contano già almeno cento morti e oltre 30 mila sfollati fra la popolazione Rohingya, fuggiaschi a causa di “operazioni di polizia”. Il silenzio del Suu Kyi pesa ,se possibile, il doppio.

Immagine: via Flickr