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Segreto professionale: vale anche nell’ambiente ecclesiastico

«“Il segreto professionale è un aspetto molto importante nelle Chiese, anzi essenziale, che si situa a più livelli contratto di lavoro, regolamento per il personale, disciplinare”. Christine Cand-Barbezat, responsabile delle risorse umane per la Chiesa riformata evangelica del cantone di Neuchâtel, può testimoniare che non si può scherzare con il segreto professionale nelle istituzioni ecclesiastiche». Ne riferisce Noriane Rapin sull’agenzia Protestinfo (16 dicembre): l’occasione è la pubblicazione, da parte della Federazione protestante svizzera, congiuntamente all’editore F. Reinhard Verlag, del libro Le secret professionnel au service de l’accompagnement spirituel (autori Rita Famos, Matthias Felder, Felix Frey, Matthias Hügli, Thomas Wild). «Si tratta anche – prosegue l’articolo – di una aspettativa da parte della società faccia a faccia con le Chiese, e poi di un obbligo giuridico: l’articolo 321 del Codice penale svizzero prevede in effetti che gli ecclesiastici siano tenuti a tacere i segreti che siano stati eventualmente loro confidati nell’esercizio della loro professione».

Come si vede, è questione che tocca e coinvolge tutte le Chiese, in qualunque Stato. «In che cosa consiste il segreto pastorale?» – si chiede Noriane Rapin. E una risposta viene dall’ambiente della cura. Così il pastore Daniel Pétremand, cappellano al Centro ospedaliero universitario del cantone di Vaud: «Il segreto pastorale si applica ogni qualvolta qualcuno mi confida qualcosa che si ritiene non sia conosciuto altrove. Si può avere una concezione più o meno restrittiva, a seconda che si ritenga che tutto quanto detto da una persona sia confidenziale, oppure che alcuni elementi possano essere estesi all’équipe sanitaria con l’accordo del paziente».

Continua il pastore Pétremand: «Il criterio per determinare il grado di “confidenzialità” di un segreto non sono solo io a porlo, è anche l’altra persona. Che cosa potrebbe essere per questa persona deleterio o giovevole, a partire dall’uso che io faccio di ciò che mi ha detto? Ciò che mi ha confidato è confidenziale o no? Il mio mestiere di cappellano d’ospedale prevede da un lato di verificare ciò che il paziente ritiene confidenziale e d’altro lato di condividere determinate informazioni per essere insieme meglio al servizio del paziente stesso. Ma d’altra parte, essendo noi depositari di informazioni a volte sensibili, ci sono situazioni in cui la confidenzialità può proteggere la vita».

L’articolo porta anche un altro tipo di esempio: «Lasciare alle persone la possibilità di dire ciò che le attraversa, può permettere loro di esistere – dice Nicolas Charrière, cappellano di carcere –. Ma per questo occorre avere la garanzia che queste affermazioni non finiscano sulla pubblica piazza; d’altra parte è importante tessere una relazione basata sulla fiducia. Nell’ambito carcerario, per esempio, questo legame è estremamente prezioso, in quanto attiene al reinserimento del detenuto».

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