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L’Italia che dice “No” ignota a Matteo Renzi

Uno dei commenti dell’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, è stato: «Non credevo mi odiassero così tanto». Una frase, anche se la citazione forse non è testuale, che la dice lunga, non solo sul fatto che il lessico extra-politico di Silvio Berlusconi (amore/odio), è entrato ormai nel dibattito pubblico; ma soprattutto sulla incapacità della classe politica di percepire il Paese reale. Ed è stata questa incapacità che ha portato Renzi a una disfatta, la sua autoreferenzialità che lo ha indotto a credere che l’Italia fosse racchiusa nelle sue slides, che i bisogni di una popolazione esasperata fossero quelli di fare un selfie con lui, o di mandare un messaggio su Facebook, aspettando di essere citati nell’impagabile “Matteo risponde”. Colpisce la sordità di un politico che della sua relazione diretta, “speciale” con il popolo (Renzi è un esempio canonico di populismo) aveva fatto il suo cavallo di battaglia. Possibile che non si sia reso conto di essere davvero “odiato” più di Berlusconi? Possibile che il record di contestazioni subite ovunque nel Paese, in ogni luogo, in tutti gli ambienti, non lo avesse messo sul chi vive? Possibile che i dati dell’Istat, dei sindacati, della Cgia di Mestre, o quelli di istituzioni benefiche non gli facessero percepire sofferenza, inquietudine e, in un crescendo, vera e propria rabbia?

Deve bruciare molto nel “più giovane presidente del Consiglio”, che del giovanilismo ha fatto la sua arma comunicativa e politica fondamentale, essere stato bocciato soprattutto dai giovani, e soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, abbandonato a dispetto di grandi proclami. La bocciatura è stata più forte nelle regioni ove il tasso di disoccupazione è più elevato: il record è della Sardegna: di disoccupazione e di No al referendum.

Da tutto ciò consegue che la mia interpretazione della vittoria del No è che si tratta in primo luogo di una sconfitta di chi ha imposto, manu militari, una legge elettorale palesemente iniqua, probabilmente incostituzionale, e una “riforma” costituzionale che cancellava i tratti della democrazia liberale, inaugurando in via formale un regime oligarchico. La sconfitta di chi, ritenendo di essere al sicuro nel recinto del potere ha sfidato il popolo italiano, convinto che la massiccia presenza mediatica, ignota persino al re delle televisioni, Silvio Berlusconi, lo avesse definitivamente conquistato. Infine, il No è stato anche nel merito: la propaganda governativa per il Sì è stata una pura e semplice campagna pubblicitaria, fondata sull’iterazione ossessiva di slogan privi di contenuto: anche qui, si è verificato il contraccolpo nei confronti di chi – Renzi, Boschi e i loro spin doctors – ha sottovalutato le capacità di giudizio della popolazione. Non si è trattato semplicemente di un errore di valutazione, ma di un gesto di arroganza che è stato, giustamente, punito.

In ogni caso, è stato anche chiarito, spero per i prossimi decenni, che nell’agenda della popolazione italiana le riforme istituzionali occupano un posto a dir poco marginale; e, in secondo luogo, che siamo affezionati alla Carta costituzionale, così come i padri (e le madri) costituenti la elaborarono tra il 1946 e il 1947, e ce l’affidarono il 1° gennaio 1948. Renzi ha avuto l’impudenza di affermare che grazie a lui gli italiani si sono avvicinati alla Costituzione: il che è vero, peccato che abbia omesso di aggiungere: «quella che io ho cercato di smantellare». Il No ha anche voluto dire che quel testo, così saggio politicamente, così curato sul piano sintattico e lessicale, non è affatto “vecchio e superato”. Si metta il cuore in pace quel manipolo di studiosi reclutati da Renzi, una minoranza che dire esigua sarebbe dir troppo. La pressoché totalità dei costituzionalisti (e dei politologi, dei filosofi politici, degli storici…) ha bocciato senza ombra di incertezza la “riforma”, o meglio la “deforma”. E hanno, con ciò, posto un freno a ogni velleità di cambiamento, di quei cambiamenti confusi, frettolosi, pasticciati, di cui nessuna persona di buon senso vede la necessità e l’opportunità.

Infine, non sarà fuori luogo sottolineare la dimensione: la vittoria del No è stata enorme, circa sei elettori su dieci, tenendo conto che si tratta di un campione altamente rappresentativo, grazie all’elevatissima percentuale dei votanti, mai raggiunta in simili consultazioni. Si è trattato dunque della Caporetto di Renzi. Ed è deprimente constatare che nelle sue dichiarazioni a caldo, nella notte tra il 4 e il 5 dicembre, e nell’intervento alla riunione della Direzione del suo partito, egli non abbia fatto un minimo accenno di autocritica, ma se la sia cavata con un ennesimo show autoreferenziale, lodando i grandi risultati del “suo” governo, e i meriti del “suo” partito. Nelle stesse ore, quasi, l’Istat certificava circa 24 milioni di italiani a rischio povertà. Ma quello è il Paese reale. Ignoto a Renzi, al suo governo, e alla stragrande maggioranza del suo partito.

Immagine: Di Sailko – Opera propria, CC BY 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=869997