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«Volevo parlarvi di…». Da Lampedusa l’appello dei migranti per chiedere giustizia

Il 3 novembre del 2016 poteva essere una data come tante. Un giorno in cui, come in cento altri, aggiornare la fredda conta dei morti nel Mediterraneo dopo un naufragio. Numeri, non storie.

Alcune volte però accade che i superstiti trovino l’occasione di raccontare e allora quelle storie emergono con tutta la loro forza e drammaticità. E può succedere anche che, forse per la prima volta a Lampedusa, quelle stesse voci si raccolgano insieme, chiedendo giustizia e dando un nome a chi è morto. Il 5 dicembre i 27 sopravvissuti al naufragio del 3 novembre, nel corso di una cerimonia interreligiosa nella chiesa di San Gerlando, hanno commemorato le 120 persone morte in mare, chiamandole per nome. Durante la cerimonia, alcuni ragazzi hanno letto un appello in cui hanno chiesto, tra l’altro, l’apertura di un’indagine che faccia luce su quanto accaduto.

Insieme a Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope a Lampedusa, proviamo a ricostruire la loro storia.

Francesco, partiamo da quel 3 novembre…

«Il 3 novembre è accaduto che nel Canale di Sicilia sono morte circa 120 persone a bordo un battello partito già danneggiato dalla Libia. Un’odissea che li ha visti morire per il freddo, le ustioni, le onde alte dopo essere stati costretti a salire sul gommone con il mare mosso e sotto la minaccia armata da parte dei trafficanti di uomini. Una delle tante tragedie del Mediterraneo che, a differenza di altre, questa volta ha visto la possibilità per i sopravvisuti di prendere voce e denunciare e raccontare quello che è successo.»

Come avete conosciuto i sopravvisuti?

«I sopravvisuti sono 27 e si trovano nell’Hotspot di Lampedusa. Noi li abbiamo incontrato quasi per caso. Abbiamo aperto un internet point che offre, nell’ufficio di Mediteranean Hope, la possibilità di collegarsi a internet alle persone che sono nel centro. Mentre eravamo lì un ragazzo ha cominciato a raccontare la sua odissea e ne ha disegnato, sul palmo della propria mano, i numeri.

Insieme a lui abbiamo deciso di organizzare una cerimonia interreligiosa per ricordare i nomi dei morti e durante la quale è stato letto un comunicato, poi condiviso su di una pagina Facebook (Les victimes du 3 novembre en mediterranée), che cerca di fare luce su questa tragedia. I ragazzi hanno passato una o due giornate cercando di ricordare i nomi delle persone che erano con loro nel viaggio. È la prima volta che i superstiti di una tragedia in mare a Lampedusa si autorganizzano, denunciano quanto gli è accaduto chiedendo giustizia, domandando alle autorità di aprire un dossier su questa tragedia, indotta dalle persone che hanno costretto questi innocenti a prendere la via del mare. Ci hanno anche raccontato delle violenze subite.

Ci troviamo di fronte ad una storia molto dura che però al tempo stesso descrive anche la forza di questi ragazzi che sono riusciti ad arrivare vivi, anche se sicuramente provati. Per loro è stata davvero una battaglia quella che è avvenuta la notte del 3 novembre tra le 3 e le 6 della mattina.»

Immagino che la cerimonia sia stato anche un momento importante per tornare a dare un nome, e quindi costruire una memoria di chi è morto tra le onde.

«E’ uno dei compiti principali che secondo me oggi siamo chiamati a svolgere a Lampedusa: fare in modo che queste persone non muoiano una seconda volta. Riuscire a costruire la memoria del domani cercando di dare dignità a questi nomi. Se queste persone non avessero avuto modo di incontrare noi e il parroco di Lampedusa, non avrebbero avuto la possibilità di scrivere quei nomi, si sarebbero dispersi nei vari centri di accoglienda in Italia e questa storia sarebbe diventata una delle tante. Invece lunedì è stato molto significativo quando leggevano i nomi perché ogni volta c’era una premessa: “io volevo parlarvi di…”. 

Io volevo parlarvi di una ragazza che era incinta e aveva una bambina di due anni; io volevo parlarvi di due fratelli; io volevo parlarvi di persone che hanno rischiato e perso la vita per cercare di dare un sollievo alle proprie famiglie in Africa”.

 

 

Se leggiamo attentamente la lettera che hanno scritto troviamo un punto di vista molto diverso dal nostro, quello di chi è dentro il barcone: ci sono termini che noi non avremmo mai usato, come “noi siamo dei soldati”. Frase che tra l’altro è significativa perché descrive questa battaglia tra il mare e le condizioni in cui sono costretti a vivere e la loro fottissima dimensione religiosa. Significativo anche il fatto che loro avvisino i loro fratelli africani mettendoli in guardia da questa rotta libica. È un testo sul quale dovremmo riflettere molto su come noi raccontiamo.

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La testata della pagina Facebook con i disegni di Francesco Piobbichi di Mediterranean Hope

Tanti anni di morti nel Mediterraneo, tanti anni di sofferenze eppure non abbiamo mai dato a queste persone la possibilità di autorganizzare la propria voce, cosa molto facile con l’utilizzo dei social network. Loro si sono collegati, gli abbiamo dato una mano per sbloccare i loro profili Facebook. Dovremmo sforzarci moltissimo di non parlare per loro ma di dare loro gli strumenti per mermettere di parlare».