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Ecologia, arte e politica

Lo chiamano lo sciamano dell’arte. La vita di Joseph Beuys si è svolta nell’arco del Novecento intrecciandosi con la storia e, da un certo punto di vista, forgiandola egli stesso: se si parla di ecologia probabilmente lo si deve anche un po’ a lui. Nato nel 1921, da giovane ha partecipato alla Seconda Guerra Mondiale insieme alle truppe tedesche; arruolatosi nell’aviazione si è schiantato oltre le linee nemiche russe, riuscendo però a sopravvivere grazie alle cure dei nomadi tartari che l’hanno trovato quasi morto e semicongelato. Un’esperienza che si può immaginare quanto possa averlo segnato fino a farlo diventare un agente del cambiamento, specie per le tematiche legate alla coscienza civile e al rapporto con la natura. Con lui il paesaggio smette di essere oggetto da ritratto per diventare un soggetto vivo e in dialogo con l’essere umano.

La mostra a lui dedicata è al Parco Arte Vivente di Torino fino al 19 marzo 2017 ed è curata da Marco Scotini.

 

Chi era Joseph Beuys?

«Coincidenza vuole che il primo a parlare di Beuys in Italia sia stato Piero Gilardi, il fondatore del Pav, dalla pagine di Flash Art nel 1967. Dagli anni Settanta Beuys era già conosciuto in Italia e ha continuato a frequentare il nostro paese per tutta la vita. L’immagine che con la mostra La tenda verde vogliamo dare è un po’ diversa da quella a cui siamo abituati: per l’Italia Joseph Beuys era il privilegiato, una figura romantica e sciamanica. Noi abbiamo voluto parlare di lui come il pedagogo, il Beuys che crea il movimento degli studenti, che fonda l’ufficio per la democrazia diretta fino alla costruzione del rapporto con il movimento delle arti tedesco; questo in un momento in cui il radicalismo, non solo ambientalista ma anche pacifista, era molto significativo.

All’epoca anche la natura era intesa come entità romantica, e in questa mostra vogliamo parlare di come il termine abusato di “natura” diventi ecologia. Volevamo specificare soprattutto questa accezione secondo la quale l’artista diventa attivatore di istituzioni e si misura con i problemi concreti della realtà contemporanea».

 

Come si può descrivere l’attivismo di questo personaggio?

«Lui è stato piuttosto contraddittorio, ma anche un innovatore. Sicuramente è stato radicale nella sua concezione modernista dell’arte che si riconosce come tale solo se in qualche modo è radicale sia dal punto di vista formale che concettuale. C’è stato anche il Beuys performer, che per cento giorni ha speso ore e ore per l’ufficio della democrazia diretta, che è capace di fare un videoclip contro Reagan nel quale diventa cantante, cosa che può sembrare la parodia di un politico piuttosto che un’azione di ricerca ed emancipazione. Sicuramente è stato un anticipatore nel voler sollevare, all’interno del dialogo sull’estetica e sulla politica, temi non scontati sulla situazione operaia e della produttività della cultura moderna. Un altro degli obiettivi del Pav è stato quello di associare Beuys ad altre figure che nella cultura italiana hanno svolto il ruolo di pioniere nel rapporto tra arte ed ecologia».

 

Come è pensato il percorso espositivo?

«Lavorando sull’opera meno nota di Beuys mi sono imbattuto nella Tenda Verde, che realizzò nella piazza principale di Düsseldorf. Nonostante abbia dedicato anni a studiare questo artista, non la conoscevo perché era ritenuta marginale, mentre invece proprio quest’opera è diventata l’ingresso del Pav. Si passa quindi attraverso questa tenda verde composta da una serie di ordini sovrapposti di tessuto e poi ci si imbatte nel percorso dedicato a Beuys partendo con La rivoluzione siamo noi del 1971. Un elemento importante è l’uso della voce: quella che lui aveva con gli studenti, la voce della protesta, la voce del dissenso. In fondo, secondo la concezione aristotelica dell’uomo come animale politico, la differenza la fa la voce e il prendere la parola. Si parla anche del suo rapporto con le istituzioni fino a quella che, secondo me, è una delle sculture più importanti del secolo scorso: il progetto 7000 querce pensato per Documenta del 1982 a Kassel. Un progetto che vedeva coinvolta tutta la città sia dal punto di vista dello spazio che da quello della società civile e che vede nell’arborizzazione della città una nuova forma di politica. Si tratta di una scultura incompleta: infatti alla sua morte avvenuta del 1986, l’opera non era ancora finita».