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A tre anni da Euromaidan, l’Ucraina fa un piccolo passo verso l’Europa

Nella notte del 21 novembre 2013 le piazze di Kiev, la capitale dell’Ucraina, si riempirono di cittadini che decisero di scendere spontaneamente in piazza per protestare contro la decisione del presidente Viktor Janukovyc di sospendere i preparativi per la firma di un accordo di associazione e di libero scambio con l’Unione europea, una decisione presa in nome di un riavvicinamento alla Russia di Vladimir Putin. Quelle proteste, cresciute giorno dopo giorno nei mesi successivi, hanno il nome di Euromaidan, un termine scelto dall’emittente radiofonica Radio Free Europe per sottolineare la centralità di Majdán Nezaléžnosti, Piazza dell’Indipendenza, luogo diventato al tempo stesso centro operativo e simbolo della protesta.

Mentre a Kiev si celebra il terzo anniversario di questo evento, sfociato nella guerra civile che divide l’est del Paese, a Bruxelles la Commissione europea ha deciso di compiere un passo in avanti nei rapporti con l’Ucraina. I 28 paesi membri dell’Unione, infatti, hanno approvato la proposta della Commissione di liberalizzare i visti per i soggiorni fino a tre mesi. Ora sulla questione si dovrà esprimere il Parlamento europeo, e l’adozione della misura resta comunque vincolata al rafforzamento del meccanismo che permette di sospenderla in situazioni d’emergenza. Questa clausola venne introdotta per placare i malumori di alcuni Paesi, preoccupati per un possibile aumento improvviso dell’immigrazione illegale, ma aveva rallentato l’approvazione della norma abbastanza a lungo da allontanarla nel tempo, scavalcata nelle priorità comunitarie da una reale crisi migratoria, quella dei profughi della guerra siriana.

La Commissione Europea, infatti, aveva giudicato già nel dicembre 2015 che l’Ucraina avesse i requisiti in regola per l’accordo, visto che aveva accettato tutte le condizioni per la liberalizzazione dei visti. La notizia dell’accordo, raggiunto giovedì 17 novembre, è stata accolta positivamente in Ucraina ed è stata vista come un forte messaggio di vicinanza e interesse. Secondo Pietro Rizzi, ricercatore di relazioni internazionali e osservatore elettorale dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, questa decisione conferma che «l’Unione europea è stata protagonista, nel bene e nel male, di tutto quel che è successo in Ucraina da quando l’ex presidente Viktor Janukovyc decise di voltare le spalle all’Europa per muoversi verso la Russia. Da lì, ricordiamo, hanno origine tutti gli scontri che porteranno alla sua deposizione. Da quel momento in poi l’Unione europea si è sempre proposta come attore principale della contesa e a distanza di tre anni dalla promessa di avvicinamento con l’Ucraina sarebbe stato difficile e problematico attendere ancora. Questa decisione della Commissione europea è un gesto che viene molto apprezzato dalla popolazione ucraina, in particolare quella che non guarda con simpatia a Mosca».

Proprio sul rapporto con la Russia si gioca gran parte delle possibilità di successo di questa iniziativa europea: fino a Euromaidan, infatti, Mosca non si era mai preoccupata troppo della vicinanza tra Kiev e Bruxelles. «Nonostante l’Europa sia sempre stata un luogo con interessi in competizione o in conflitto con quelli russi – spiega infatti Rizzi –, Putin non ha mai pensato all’Unione europea come a una minaccia in termini militari e di influenza. È molto differente invece il discorso relativo alla Nato e al suo spostamento verso est, e qui invece l’ostilità è aperta».

Ma è possibile oggi declinare il Paese al singolare?

«L’Ucraina oggi è un concetto molto ampio, perché da un lato si parla dello Stato sovrano ucraino, ma dall’altro ci sono zone che, pur essendo internazionalmente riconosciute come ucraine, di fatto non lo sono. La prima è la Crimea, che è totalmente sotto il controllo russo e non si prevede che rientri in un’area di influenza ucraina a breve, ma forse nemmeno nel lungo periodo, e la seconda è il Donbass, quindi i due oblast di Donetsk e Luhansk, nell’est del Paese, dov’è in corso una vera e propria guerra civile».

Quello che non stiamo leggendo e che non stiamo vedendo è quello che accade al di là della “cortina” che separa la zona d’influenza ucraina da quella russa. Attualmente per la comunità internazionale è possibile monitorare quello che accade sia in termini di conflitto sia in termini di state building al di là di questa cortina?

«Le possibilità sono molto limitate. Il problema va oltre le proprie posizioni, è una difficoltà pratica, perché un conto è parlare con governi riconosciuti, un altro invece è non sapere con chi poter dialogare. Per l’Ucraina che fa capo a Kiev la cosa è abbastanza facile, perché c’è un governo che, per quanto criticabile e criticato soprattutto dalla Russia, è legittimamente eletto, mentre per le aree sotto il controllo dei filorussi non si sa con chi parlare. La Russia, con più o meno forza e convinzione in base ai periodi, appoggia i separatisti che controllano completamente queste due aree di Donetsk e Luhansk. Il problema, però, è che non sono personaggi eletti che sono di fronte a tutti e per giunta allo stesso interno di queste due entità di pseudostati ci sono delle lotte intestine che cambiano ogni giorno l’assetto politico di queste aree».

Quindi concretamente che cosa può fare la comunità internazionale?

«Poco, ma ha dispiegato una missione di monitoraggio dell’Osce che in teoria dovrebbe dire non tanto chi sia il buono e chi il cattivo, ma verificare il rispetto di quei famosi accordi di Minsk che provarono a mettere un argine a questo conflitto. Purtroppo però bisogna ammettere che questa presenza non ha fermato la guerra né ridotto il numero di morti. Purtroppo però in questo periodo non fa più notizia».

Non ci sono soltanto i morti, ma anche un grande numero di sfollati interni e di rifugiati che sembrano non esistere. È possibile capire dove si ricollocano questi profughi?

«Non è per niente semplice. Bisogna tenere presente che lo stesso stato ucraino ha difficoltà a capire dove si ricollochino i profughi, perché spostare la residenza dalle zone controllate dai ribelli a quelle controllate dal governo ucraino prevede di passare totalmente sotto i benefit e gli oneri che l’essere sotto lo stato ucraino ti porta, mentre magari essere residente all’est ma riuscire in qualche modo a passare all’ovest permette addirittura in alcuni casi di ottenere due pensioni, due benefit complementari. Questo succede perché nell’est controllato dai separatisti, dopo un periodo iniziale di grande sconforto, la Russia capì che serviva un’iniezione di denaro sotto forma di rubli per riuscire ad avere sotto controllo la popolazione che presentava un normale e fisiologico malcontento. Nelle pieghe di questi problemi burocratici la popolazione cerca di ottenere il meglio per sé e per la propria famiglia, perché stiamo comunque parlando di aree in cui lo stipendio e la pensione media si aggirano intorno ai 100 euro al mese. Visto che i cittadini delle aree coinvolte nel conflitto cercano di sfruttare il poco che viene messo a disposizione, anche l’Ucraina ha difficoltà a sapere dove si trovino e cosa facciano queste persone. Figuriamoci quindi quale informazione può arrivare qui, dall’altra parte del conflitto, o peggio ancora direttamente a Bruxelles».

Immagine: By Evgeny Feldman – Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=29908745