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La Convenzione dei diritti dell’infanzia un testo troppe volte tradito

La Convenzione dei diritti  dell’infanzia e dell’adolescenza compie 27 anni. Era il 20 novembre 1989 quando a New York l’assemblea generale delle Nazioni Unite approvava lo splendido testo, diviso in 54 articoli, che finalmente, dopo anni di discussioni e dopo vari tentativi, pareva chiudere un cerchio aperto all’indomani della prima guerra mondiale, quando esplose in tutta la sua crudezza il dramma delle devastanti conseguenze fisiche, psichiche e sociali che un simile conflitto comportava per i minori.

In principio fu  la Dichiarazione dei diritti del fanciullo, redatta dalla Società delle Nazioni, antesignana dell’Onu, sul modello del testo preparato nel 1923 da Eglantyne Jebb, volontaria e attivista britannica, fondatrice con la sorella Dorothy dell’organizzazione internazionale Save the Children. Nel 1959 toccò alle Nazioni Unite ratificare il testo, e da quel punto partirono le lunghe discussioni che portarono al documento del 1989, più moderno e onnicomprensivo delle dinamiche insite in un mondo in rapida evoluzione.

Sembra assurdo ma furono molti gli scogli da superare, primo fra tutti identificare per tutti gli Stati del pianeta una definizione univoca di infanzia e dei suoi parametri temporali, perché in molte aree geografiche l’età adulta iniziava e inizia ancora tristemente prima dei 18 anni indicati infine quale confine di senso.

4 sono i cardini attorno a cui ruota la Convenzione: la non discriminazione del minore cui va garantito ogni diritto senza distinzione alcuna, il superiore interesse della bambina e del bambino che deve essere prioritario rispetto ad ogni altro ragionamento, il diritto alla vita e allo sviluppo sano e infine  il diritto del minore a venire ascoltato nei processi decisionali che lo riguardano.

In 27 anni sono ben 194 i paesi che l’hanno adottata, ultimo la Somalia lo scorso anno. In pratica tutti tranne uno: gli Stati Uniti. Incredibile ma vero, la grande nazione fra le patrie della moderna democrazia in sostanza non ratifica pressoché mai documenti che possano limitare la propria sovranità nazionale, siano essi testi che mettono al bando le armi, che si occupino di ambiente (vedi Kyoto) o di violenza sulle donne.

Il grosso discrimine, lo scoglio insuperabile per Washington sarebbe, a prestar fede al parere di vari giuristi, l’articolo 37 che recita che gli Stati sono chiamati a vigilare affinché «nessun fanciullo sia sottoposto a torture,  pene capitali o imprigionamenti a vita e nessun fanciullo sia privato di libertà in maniera arbitraria perché l’arresto o la detenzione di un minore devono essere effettuati in conformità con la legge e costituire un provvedimento di ultima risorsa e avere la durata più breve possibile». Nemmeno l’amministrazione di Barack Obama ha riesumato dal cassetto la Convenzione per ratificarla finalmente.

La tutela dei diritti dei minori è principio importantissimo ovunque, ma certamente le attenzioni dei legislatori erano soprattutto rivolte alle aree disagiate del mondo. Sembrava  in quegli anni, alla fine della guerra fredda, quello dell’occidente un cammino lastricato di conquiste sociale e politiche dalle quali non si poteva tornare indietro, esempio e guida per il resto del mondo.

Rimarrebbero probabilmente colpiti dai dati pubblicati solo ieri da Eurostat, l’ente che per conto dell’Unione Europea si occupa di analisi dei fenomeni sociali del vecchio continente: un bambino su quattro in Europa è a rischio di povertà ed esclusione sociale ( il dato si impenna addirittura al drammatico uno su tre in Italia come evidenziato anche da Save the Children). Il calcolo avviene tenendo conto di tre fattori primari: la povertà dovuta a cambiamenti sociali della famiglia, le situazioni di privazioni materiali gravi e le condizioni lavorative precarie dei familiari.

Il dato è in leggero calo rispetto al 2010 (27,5%) ma rimane pericolosamente elevato e lascia solo presupporre quali possano essere dunque le rilevazioni in aree del pianeta assai più disagiate da un punto di vista ambientale o sociale. Peggio dell’Italia in Europa fanno solo Romania, Bulgaria, Grecia, Ungheria e Spagna, mentre fra i virtuosi vanno annoverati i soliti Svezia, Finlandia e Danimarca, sebbene anche in queste nazioni oscilli comunque attorno al 14% la percentuale dei minori disagiati.

Ovunque il rischio di esposizione o povertà diminuisce con l’incremento del livello di educazione dei genitori. In italia come accennavamo la situazione è peggiore della media e ciò che ancora preoccupa di più si tratta di un trend in crescita: nel 2010 infatti nel nostro paese la percentuale dei minori a rischio era pari al 29,5%, oggi siamo al 33,5%, solo Grecia e Cipro hanno fatto peggio in questo periodo, mentre la situazione di molti altri Stati è andata migliorando, segno che la crisi economica ha avuto un ruolo relativo in questo processo di erosione di diritti e sicurezze dei minori.

Insomma, dati poco rassicuranti che fanno comprender al meglio quanto sia più che mai attuale la sfida della tutela delle nuove generazioni. Perché anche dove molte conquiste sembrano o sembravano oramai appurate e definite una volta per tutte, queste sono in realtà a rischio non appena si abbassano le difese e si definiscono priorità differenti rispetto a quelle delle tutele dei diritti delle persone.

Foto: via Flickr  CCo Public Domain